di Luca Bianchi e Gaetano Vecchione
su Corriere del Mezzogiorno
Verso il Centro-Nord e l’estero. Il tasso di d’Europa; le competenze formate non trovano sbocchi occupazionali coerenti con le qualifiche acquisite. La sfida, dunque, è trasformare i segnali positivi evidenziati nell’ultimo Rapporto Svimez in una traiettoria stabile. E specialmente nella formazione universitaria che si osservano negli ultimi anni segnali di parziale convergenza. Nelle università del Mezzogiorno qualcosa si sta muovendo. Dopo anni di cronache dominate dalla fuga di matricole verso il Centro-Nord, gli ultimi anni raccontano una storia diversa: gli atenei meridionali tornano ad attrarre studenti e a trattenerli nei percorsi avanzati di studio.
Innanzitutto, il tasso di passaggio scuola-università, ovvero gli studenti diplomati che decidono di iscriversi all’università, ha recuperato i livelli degli anni precedenti alla grande crisi 2008-2009 attestandosi intorno al 61%. Altro dato rilevante riguarda gli iscritti al primo anno delle lauree magistrali che sono cresciuti nell’ultimo anno da 40 a 45 mila con un aumento dell’11%, la migliore performance dall’inizio delle serie. Anche sulle triennali e sui corsi a ciclo unico si registra un recupero: gli immatricolati per sede del corso negli atenei del Mezzogiorno sono passati da 92 a 94 mila (+2%), ossia un tasso di crescita doppio rispetto al Centro-Nord (+1%). Significa che un numero crescente di giovani meridionali sceglie di completare il proprio percorso formativo «a Sud»: nel 2024/25 sono circa 17 mila, pari al 15% del totale immatricolati, il valore minimo dal 2010. Non è la fine della «fuga dei cervelli», ma indica che per una parte crescente di famiglie del Sud l’opzione di restare non è più una scelta di ripiego.
Questi segnali sono importanti perché, come ricorda l’Ocse, garantire un equo accesso all’istruzione terziaria è una condizione cruciale per rafforzare la mobilità sociale. L’Italia resta uno dei sistemi universitari più sottofinanziati tra i Paesi avanzati, ma negli ultimi anni si sono compiuti passi avanti significativi, soprattutto dal lato dell’accesso all’università e del diritto allo studio. Tra le misure più rilevanti vi è l’introduzione della no tax area nel 2016, poi estesa nel 2020, che consente a una fascia ampia di studenti l’esonero parziale o totale delle rette universitarie in base all’Isee. Il risultato si vede nei numeri: nei principali mega atenei italiani la quota di studenti totalmente esonerati dalle tasse universitarie è del 31% alla Statale di Milano, del 32% a Bologna, del 37% alla Sapienza, del 40% a Pavia, mentre alla Federico II, uno degli Atenei che si è spinto più avanti su questo fronte, arriva al 50%. Una platea che si restringe drasticamente negli atenei privati e telematici (che non beneficiano della no tax area), dove le percentuali di esonero si fermano in media intorno al 10% nel primo caso e al 3% nel secondo confermando il ruolo insostituibile dell’università pubblica come ascensore sociale. Complessivamente, dal 2016 sino ad oggi, gli immatricolati dei principali Atenei del Mezzogiorno sono aumentati di circa il 15%.
È tuttavia ancora lunga la strada da percorrere. Innanzitutto, occorre incrementare i livelli di spesa pubblica per l’università portandoli almeno a quelli delle principali economie dei paesi Ocse (il Fondo di finanziamento ordinario dell’università è diminuito in termini reali del 2% circa tra il 2007 e il 2025). Sarebbe illusorio pensare che il sistema possa autosostenersi all’infinito solo con piccoli aggiustamenti e con la buona volontà di chi ci lavora. In secondo luogo, occorre ricercare una maggiore integrazione del sistema universitario con il mondo delle imprese, soprattutto in termini di formazione terziaria professionalizzante (Its Academy). In terzo luogo, continuare ad utilizzare risorse complementari come i fondi europei o Pnrr in modo da amplificare l’impatto delle politiche sull’education e quindi sui giovani, come ad esempio è successo negli ultimi anni in Campania e Puglia grazie a interessanti programmi di supporto allo studio di ambito terziario.
Infine, affinché questi investimenti non si disperdano attraverso la migrazione di giovani qualificati verso il Centro-Nord o l’estero (stimati da Svimez in una perdita secca di circa 8 miliardi l’anno), occorre rafforzare la domanda di lavoro sui territori meridionali sia quantitativamente (più lavoro) che qualitativamente (migliori lavori e pagati meglio). In altre parole, bisogna stimolare in tutti i modi la nascita di nuove imprese, soprattutto innovative, e il consolidamento delle Pmi già esistenti.
Il capitale umano è la leva decisiva per la crescita economica del Paese. Rafforzare in modo selettivo e strategico la filiera dell’istruzione terziaria – università e Its – integrandola con politiche industriali e di coesione orientate alla creazione di lavoro qualificato è condizione essenziale affinché i giovani meridionali qualificati non siano costretti a migrare e possano così contribuire alla costruzione di un nuovo Mezzogiorno, finalmente.


