di Adriano Giannola
su Milano Finanza
L’ art 116, terzo comma, della Costituzione prevede che la legge ordinaria possa attribuire alle Regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» sulla base di un’intesa fra lo Stato e la regione interessata. L’ultimo ostacolo sul percorso di attuazione di tale disposizione è stato rimosso il 26 giugno scorso con l’approvazione del disegno di legge Calderoli, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 1° luglio. Il primo rilevante effetto verrà dalle possibili richieste delle Regioni di trasferimento delle «funzioni» che, non richiedendo la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), consentono di siglare «intese» tra Stato e Regione con l’assegnazione delle «… relative risorse … previste a legislazione vigente». (art.4 comma 2). Tenuto conto che le «intese» – da approvare in Parlamento a maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto – sono inemendabili e di fatto irreversibili, ne consegue una subdola costituzionalizzazione del criterio della spesa storica il cui superamento si conferma un formale impegno disatteso da quando, proprio a questo scopo, nel 2009 fu emendata la legge 42 in attuazione dell’articolo 119 del Titolo V.
Non basta: la spesa storica vige per default (articolo 4 comma 1) anche per le funzioni che attendono la definizione dei metafisici Lep e, soprattutto, del loro finanziamento. La legge consente alle Regioni delle Intese di sottrarsi a prossime misure perequative, compito affidato fin dal 2009 alla legge 42, in sonno, larvatamente rispolverato nel 2021 dalle fragili condizionalità dell’Ue a corredo del Pnrr. A salvaguardia di forme di perequazione non resta ormai che imporre in tutte le intese stipulate l’impegno, assoluto e cogente per la Regione, del recepimento automatico dei provvedimenti che dovessero segnare l’improbabile risveglio dal sonno della 42/2009.Con l’inversione della prassi il ministro ostenta (artico-lo 4 comma 1) di fare di necessità virtù congelando la possibilità di «intese» sulle materie Lep. Guarda caso sono le materie nelle quali è scandalosamente esorbitante il «privilegio storico» delle Regioni richiedenti l’autonomia. Perciò sia lo spirito che la scrittura della legge sono incompatibili con la corretta attuazione del 116 terzo comma. Sorprende l’assordante silenzio in merito alla chiara strategia elusiva che costituzionalizza per un verso il criterio della spesa storica, per altro verso avvelena i pozzi di possibili intese sulle funzioni in attesa dei Lep, per non bloccare il percorso, garantendo intanto anche per quelle il criterio della spesa storica.
Il grave torto alla logica conferma e consolida gravi storture già nell’immediato. Ne dava sinteticamente conto il 24 ottobre 2019 il ministro pro tempore per gli Affari Regionali, audito in occasione della «Indagine conoscitiva sul processo di attuazione del regionalismo differenziato, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione». Rispondendo alla presidente il ministro chiarisce, «…l’ultima domanda della presidente… fa riferimento ai 60 miliardi…. Da dove nascono …? E fin troppo evidente che dal 2001… al 2019…la quota di risorse medie trasferite alle Regioni del Mezzogiorno non è mai andata oltre il 24,5-25%, …dovendo garantire il 34% … di risorse ordinarie…. Se ci fosse…. un conto da pagare sulle risorse non stanziate …, quel conto sarebbe di 61 miliardi per anno, che non ci sono».
Il dato è ufficiale, come tale condiviso, e induce autorevoli protagonisti (come il presidente della Regione Calabria) a interrogarsi: l’autonomia differenziata è una possibilità offerta – a ben precise condizioni- dalla Costituzione; rinvia preliminarmente al rispetto della 42/2009 attuativa dell’articolo 119 e, in merito al 116 comma tre, ne subordina l’attuazione all’armonia «con i principi di cui all’articolo 119»: un vincolo, non un’opzione. La meccanica del ddl imperniata nei due commi dell’articolo 4 – il fulcro sul quale fa leva la legge approvata – mira, dunque, ad assicurare subito «il massimo al momento possibile di differenziazione tra le Regioni» mettendole al riparo da tentativi di perequazione grazie all’ardita «inversione della prassi».
Ogni Regione «autonoma» non vuole realizzare la secessione; mira alla sovranità e la ottiene: assume forma di Stato senza vestirne i panni con buona pace del premier che governerà, se mai, sui sette colli di Roma.
Per inerzia – a intese approvate – altre intese promuoveranno ben prevedibili assestamenti territoriali attuando quanto scritto a chiare lettere nell’articolo 117 comma 8 del Titolo V che, in non casuale complementarità al 116 comma 3, recita: «…la legge regionale ratifica le intese delle Regioni con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni». In sintesi: nasce il «Gran-de Nord Sovrano» senza secessione (Catalogna docet!); si fomenta il non augurabile contraccolpo che coltiva l’illusione del «Grande Sud» in una ormai «Piccola Italia», confederazione di Regioni garanti dei diritti solo ai «propri» cittadini: una prospettiva opposta e lontana dalla terra promessa del federalismo liberale.