di Adriano Giannola
su La Repubblica Napoli
Il Mezzogiorno, la Mecca delle fonti rinnovabili del Paese, da anni traina lo sviluppo del solare fotovoltaico e dell’eolico: due fonti green ma anche ambientalmente impattanti, discontinue e a bassa efficienza. Curiosamente, manca all’appello la fonte, continua e più efficiente, che meglio può contribuire alla decarbonizzazione e alla riduzione della dipendenza energetica: la geotermia. Con il primo impianto al mondo realizzato in Toscana a Larderello, oggi la sua potenzialità è centrata in Campania, Lazio e Sicilia e, in misura minore, in Sardegna e in Puglia. In nessuna di queste regioni, troviamo un impianto geotermico, tanto meno nell’area più vocata, in assoluto, quella metropolitana di Napoli.
Attrezzare i tre siti vulcanici – Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia – ideali per l’utilizzo in sicurezza delle più moderne tecnologie geotermiche fornirebbe un grande apporto energetico anche limitandosi a un regime di bassa entalpia, cioè usando l’energia estratta a profondità superficiali (non più di 200 metri), a costi di perforazione molto contenuti, in tutta sicurezza e con l’enorme pregio di poter soddisfare la domanda in zone ad elevatissima urbanizzazione.
Quello dei tre siti vulcanici non solo è tra i più ricchi al mondo in termini di risorse geotermiche, ma è anche un’area dove l’utilizzo geotermico è più semplice e potenzialmente incisivo. Il regime a bassa entalpia consente di produrre energia elettrica già a profondità estremamente superficiali, a costi molto contenuti per la perforazione, con garanzie di sicurezza altrettanto valide.
Poiché i principali costi degli impianti geotermici sono imputabili alle condotte di tubazioni necessarie per portare il fluido geotermico a destinazione, nell’area metropolitana di Napoli, caratterizzata da innumerevoli sorgenti geotermiche, alcune note da secoli come sorgenti termali superficiali, localizzate a profondità variabile ma comunque superficiale, i costi di trasporto sarebbero praticamente azzerati.
Nella sola Campania ci sono un centinaio di pozzi geotermici e 56 sorgenti, dei quali 69 e 32 solo nell’area metropolitana di Napoli. Bastano per immaginare un ben consistente potenziale di energie rinnovabili per il capoluogo partenopeo.
L’ampia disponibilità della risorsa geotermica disponibile, in media, a 200 metri di profondità, potrebbe avviare una rapida sostituzione delle caldaie tradizionali con pompe di calore geotermiche per il riscaldamento e raffreddamento di tutti gli edifici, pubblici e privati sia residenziali che produttivi per l’intero territorio di Napoli e provincia.
In pochi anni, l’impatto, economico, occupazionale, sociale (e reputazionale) di una Napoli carbon free, farebbe prevalere il buon senso smentendo la necessità di un’inevitabile resurrezione di un nucleare “quasi pulito”, soluzione alla quale -in una prospettiva di oltre i dieci anni- il Governo lavora.
Mentre Napoli tentenna e diserta la sfida, la pragmatica Emilia, a Ferrara, da anni attinge alla geotermia ed è oggi impegnata a potenziarla spingendosi oltre i 4000 metri di profondità per catturare quell’energia disponibile a Napoli a meno di 200 metri di profondità. In realtà, mentre Partenope elude la geotermia in nome del rischio vulcanico, ben poco fa per opporsi al rischio dei suoi vulcani: la strategia di mitigazione all’orizzonte, infatti, è ancora il piano di “evacuazione-deportazione” della popolazione in tempi e per luoghi indeterminati. Poco si riflette sul “banale” ma cogente nesso tra energia, contrasto alla desertificazione delle zone interne, e mitigazione del rischio della città metropolitana: conciliare energia, geotermia e rischio apre una prospettiva di sviluppo territoriale sulla dorsale Napoli-Bari: una concreta prospettiva per la più grande Napoli nittiana, sannitica, irpina, energeticamente esemplare e sicura.