di Patty Torchia
su Fortune Italia
Come costruire il futuro del nostro Paese. Per Luca Bianchi di Svimez bisogna ripartire dal diritto allo studio e dalla partecipazione delle donne al mercato del lavoro
In Italia si studia per emigrare. È la fotografia, amara, ma realistica che emerge dalle parole di Luca Bianchi, direttore della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno che dal 1946 studia le trasformazioni economiche e sociali del Sud e i divari territoriali in Italia e in Europa. Nell’intervista che segue, Bianchi ci aiuta a leggere uno dei paradossi più gravi e trascurati del nostro Paese: la crescente fuga dei giovani laureati, soprattutto dal Sud verso il Nord o l’estero, in una spirale che rischia di svuotare interi territori di competenze, energie e futuro. Non è solo questione di emigrazione intellettuale, ma di assenza di opportunità, stagnazione salariale e debolezza strutturale del mercato del lavoro. A partire da questi dati, Bianchi smonta l’idea che investire nei giovani del Sud sia inutile o antieconomico: al contrario, sostiene, è l’unico modo per uscire da un declino annunciato. Ma servono politiche coraggiose, una visione di lungo termine, investimenti stabili nei servizi, nei salari e nel capitale umano. Dalla “restanza” alla “desertificazione”, dal fallimento delle politiche salariali al potenziale inespresso delle donne, l’intervista che segue ci aiuta a capire non solo cosa sta accadendo nel Mezzogiorno, ma cosa rischia l’intero Paese se continua ad ignorare le proprie fratture territoriali, sociali e generazionali.
Svimez ci dice che per la prima volta i laureati emigrano più dei lavoratori non qualificati. Abbiamo trasformato l’istruzione in una fabbrica di emigranti?
È un problema nazionale che diviene una vera emergenza nel Mezzogiorno. Negli ultimi anni le migrazioni giovanili sono diventate progressivamente più selettive: aumentano i laureati italiani che scelgono l’estero (il saldo netto negativo ammonta a circa 60mila tra il 2002 e il 2022) e quelli che si spostano da Sud a Nord (126mila nello stesso periodo). Per la mobilità interna la selettività è ancora più forte: circa 1 giovane migrante su 2 è in possesso di una laurea, per la componente femminile supera il 60%. Questo è l’esito, tra gli altri fattori, dell’incapacità del mercato del lavoro di intercettare e trattenere l’offerta di lavoro qualificato presente sul territorio. Una crescita dell’occupazione come quella degli ultimi anni, concentrata nel turismo e nell’edilizia, a bassa specializzazione e con salari inadeguati, non offre opportunità ai laureati del Sud. Se ne esce solo modificando il modello di sviluppo, puntando su innovazione e competenze.
La laurea, specialmente al Sud, sembra un investimento che si ammortizza solo… altrove. È il sistema universitario italiano a essere troppo costoso o il mercato del lavoro a essere troppo povero?
C’è un tema di costo, non solo di retta, ma soprattutto di servizi, a partire dalle case per i fuori sede, che limita la partecipazione al sistema universitario dei giovani provenienti da famiglie a basso reddito, soprattutto al Sud. Ricordo che in Italia la quota di laureati sulla popolazione di 25-34 anni è di appena il 30%, 10 punti inferiore alla media europea; nel Mezzogiorno scende al 20%. Non mi sembra che sia percepita come una priorità nel dibattito politico. A ciò si aggiunge il basso rendimento dell’istruzione nel mercato del lavoro, dominato da salari mediamente bassi e una insufficiente domanda di lavoro qualificato. Anche nel 2024 continuiamo ad essere il fanalino di coda in Europa per dinamica salariale stagnante. Siamo ancora lontani dal livello del 2019, con una perdita di potere d’acquisto di 4,3 punti percentuali, in Italia, è di oltre 6 punti al Sud.
Cosa risponderebbe a chi dice che investire nei giovani meridionali è antieconomico, perché tanto poi vanno via?
Rispondo che investire nei giovani è l’unica strada per costruire una società a prova di futuro. La chiave è fare del capitale umano formato, risorsa sempre più scarsa anche per le sfavorevoli dinamiche demografiche, un fattore di attrazione per nuovi investimenti. Questo però richiederebbe un totale cambio di passo nelle politiche salariali e nelle politiche fiscali che dovrebbero assumere come target la partecipazione attiva delle nuove generazioni alla vita economica e democratica del Paese.
Parliamo chiaramente: è ancora utile parlare di “occupazione giovanile” se i salari sono così bassi da scoraggiare persino i più motivati?
Non è solo utile, direi che è fondamentale. Quella giovanile è diventata la nuova questione meridionale, accanto a quella femminile. Il dato sull’occupazione femminile resta agghiacciante. Anche nel 2024, le regioni del Sud sono ultime in Europa, peggio della Spagna e della Grecia, con tasso di occupazione di poco superiore al 30% in Calabria, Campania e Sicilia. Quello femminile resta un potenziale inespresso che se adeguatamente occupato potrebbe portare a ripensare in maniera decisiva le prospettive del Mezzogiorno.
Quanto pesa, secondo Svimez, la stagnazione salariale nel Sud sul fenomeno migratorio? E quanto la precarietà delle forme contrattuali?
Sono due fattori fondamentali, ma a questo aggiungerei il tema dei divari nei servizi di cittadinanza, istruzione e salute in primis, che sono decisivi per rendere il Sud, e in generale il Paese, un luogo attrattivo per i giovani e per le famiglie. Perché il fatto stesso che questo fenomeno migratorio estremamente selettivo assuma anche una connotazione di genere – interessa in misura maggiore le laureate rispetto ai laureati – fa emergere che, oltre alla debolezza del mercato del lavoro locale, entrano in gioco ulteriori elementi di contesto sfavorevoli (dotazione e qualità delle infrastrutture sociali e dei servizi di conciliazione e cura) che determinano una discriminazione di genere, penalizzando principalmente la forza di lavoro femminile.
Si è parlato molto di “restanza” come risposta alla fuga. Ma senza un salario dignitoso, la retorica dell’attaccamento alla terra non rischia di diventare paternalismo di Stato?
Sì, senza lavoro di qualità e servizi, parlare di “attaccamento alla terra” rischia di diventare retorica o peggio paternalismo, i giovani non vanno colpevolizzati per la scelta di andare via, scelta che troppo spesso è una necessità. Al contrario, bisogna metterli nelle condizioni di scegliere, di andare, tornare e restare. Significa creare parità di opportunità indistintamente dal luogo di nascita, questo deve essere un obiettivo prioritario delle politiche, a tutti i livelli di governance, e, del resto, sarebbe la manifestazione concreta di un disegno compiuto di coesione territoriale.
Possiamo ancora parlare di questione “meridionale” o dovremmo ormai parlare di vera e propria desertificazione socio-economica del Sud?
Con la Svimez da anni guardiamo alla questione del Sud come riflesso di un quadro più ampio che ha a che fare con la scarsa crescita italiana. Quello che osserviamo nel Mezzogiorno spesso anticipa le dinamiche nazionali, in alcuni casi può esacerbarle, in altri rispecchiare ciò che accade in tutte le aree fragili, anche quelle del Nord e del Centro. A volte affrontare i problemi al Sud significa giocare d’anticipo, disinnescare, evitare che questi assumano una dimensione nazionale per poi non lasciare vie di scampo.
Le migrazioni interne non sono nuove, ma oggi sembrano irreversibili. Esiste, concretamente, una politica nazionale per riequilibrare la mobilità dei giovani?
No, non sono un fatto nuovo, ma una volta erano un fattore di convergenza, anche perché il Sud era un’area a forte crescita demografica. Oggi sono diventate un fattore di divergenza che sottrae capitale e riduce il potenziale di crescita. È un tema che fatica ad assumere centralità nel dibattito politico perché non ha una costituency, un gruppo di interessi che rappresenti i suoi interessi. I giovani contano poco e, come ci insegna Hirschman, quando la voice è troppo debole, rimane solo l’exit, la scelta di andarsene.
Nel Pnrr si parlava di coesione e rilancio del Sud: stiamo rispettando le promesse, o stiamo costruendo l’ennesimo piano che favorisce le aree già forti?
Il Pnrr, nonostante alcuni limiti di impostazione, sta camminando soprattutto al Sud. Si è tornati ad investire dopo una lunga stagione di austerità. I Comuni, nonostante i tagli del personale degli ultimi anni, hanno incrementato gli investimenti del +65% tra il 2022 e il 2024, con voci di spesa aumentate di circa 10 volte (è il caso degli asili nido) e in altri casi raddoppiato (come l’edilizia scolastica e il social housing). Qualcosa si sta muovendo. Rimane tuttavia l’esigenza di accompagnare, nel tempo che ci resta, le amministrazioni più deboli, soprattutto i piccoli Comuni. Ma soprattutto occorre dare continuità alla politica di investimenti in infrastrutture sociali anche dopo il PNRR.
Entro il 2080 il Mezzogiorno sarà l’area più vecchia del Paese. Cosa succede a un territorio dove ogni giovane porta via competenze, consumi e anche figli?
Succede che si avvita in un circolo vizioso. Meno giovani significa meno servizi, meno crescita, meno futuro. Ma siamo nei tempi, anche se stretti, per scongiurare questi rischi, è necessario lavorare sull’attrattività dei territori per invertire il trend. Territori attrattivi sono quelli che non costringono i giovani a partire, ma che li incentivano a tornare o arrivare perché offrono opportunità lavorative, retributive e servizi. E poi non bisogna trascurare una dimensione fondamentale che è quella dell’integrazione e dell’accoglienza. Nelle recenti analisi Svimez, abbiamo documentato come l’attrazione di giovani famiglie straniere già oggi rappresenta per molte aree del Paese una leva concreta di contrasto allo spopolamento, e quindi al calo delle iscrizioni scolastiche e al conseguente rischio di chiusura dei presidi scolastici. Rafforzare i diritti di cittadinanza per gli stranieri è una via concreta per assicurare continuità a un presidio culturale primario che, oltre a sviluppare le opportunità formative di bambini e giovani, consente di arginare i processi di spopolamento e invecchiamento. Occorre ribaltare la percezione comune di un pericolo immigrazione, inserendo a pieno titolo le politiche di inclusione come parte integrante di un progetto che, attraverso il miglioramento dei servizi pubblici e il supporto alla localizzazione di attività produttive, riduca l’emigrazione dei giovani e insieme favorisca l’attrazione di nuove famiglie. In sintesi, possiamo dire: accogliere per restare.
È impopolare dirlo, ma oggi l’università rischia di creare frustrazione più che emancipazione. Ha ancora senso spingere tutti verso l’istruzione terziaria, senza modificare il contesto?
Ha senso, anche perché, contrariamente alla retorica ricorrente degli opinionisti che frequentano gli studi televisivi, i dati ci dicono che studiare conviene. Il tasso d’occupazione dei giovani laureati è quasi 15 punti superiore a quello dei diplomati al Nord e al Sud è quasi doppio. Il premio alla laurea, nonostante la debolezza del mercato del lavoro, ancora esiste.
Se i giovani emigrano, le imprese non investono e la popolazione invecchia, a chi serve davvero mantenere lo status quo nel Mezzogiorno?
Non serve senz’altro ai giovani del Sud e non serve al Paese che non sfrutta un potenziale di crescita fondamentale. Forse serve ad una classe dirigente, al Sud ma non solo, che non riesce ad interpretare la domanda di cambiamento. Una nuova stagione deve rompere con il passato e restituire protagonismo alle nuove generazioni. Favorire il diritto allo studio dei giovani e supportare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro sono gli assi fondamentali per contrastare l’emigrazione e il declino demografico; ed è anche la condizione per garantire capitale umano formato, necessario ad attrarre investimenti nei settori innovativi.
A giudicare dai dati, sembra che lo Stato italiano abbia smesso di credere nel Sud. È una provocazione che sottoscriverebbe?
Direi che le politiche hanno smesso di credere nel Sud quando la questione settentrionale ha sostituito quella meridionale a metà degli anni 90. Da allora, fino alla pandemia, il Sud si è allontanato
dal Nord e insieme l’Italia dall’Europa. La crisi Covid e poi la ripresa trainata dalle politiche espansive hanno cambiato tutto e il Sud ha dimostrato che, quando è messo nelle condizioni di reagire, risponde; è cresciuto negli ultimi tre anni anche più del resto della nazione. Ma soprattutto dobbiamo superare la retorica dei due Paesi, di un Nord che funziona e di un Sud palla al piede con problemi e soluzioni diversi. In realtà il Paese è molto più simile e più unito di quanto ci hanno raccontato e soprattutto molto più interdipendente. Cresce se lo fa in tutte le sue aree e se si riducono le disuguaglianze tra persone e tra territori, ricucendo i tanti strappi che attraversano il Paese, non solo tra Nord e Sud, ma tra centri e periferie, tra generi e tra generazioni.