di Gaetano Vecchione*
su Corriere del Mezzogiorno
Il convegno della Conferenza dei Collegi Universitari di Merito che si è tenuto oggi a Napoli con Michael Sandel presso il Centro Studi IPE ha messo in discussione una parola che in Italia pronunciamo continuamente, spesso in modo rituale: merito. La critica di Sandel non è un rifiuto del merito in sé, ma del modo in cui, negli ultimi decenni, lo abbiamo concepito e usato come criterio assoluto per distribuire opportunità, prestigio e riconoscimento. Non ci chiede di rinunciare al merito, ma di interrogarci su cosa chiamiamo “merito” e su come lo misuriamo nella pratica concreta della vita sociale.
Il punto, dunque, non è decidere se sia giusto o no introdurre criteri meritocratici nella società. Quasi tutti vorremmo che a vincere un concorso, ottenere una borsa di studio, dirigere un’azienda fosse chi è più capace e più impegnato. La domanda vera è un’altra: quali condizioni rendono possibile un uso giusto del merito? E chi ha davvero accesso alle risorse, alle reti, alle esperienze che permettono di “dimostrare” il proprio talento?
Questa declinazione del merito è cambiata profondamente negli ultimi decenni. Nel secondo dopoguerra, fino agli anni Ottanta, l’Occidente cresceva in termini di reddito, benessere, servizi pubblici. La torta economica si allargava e, pur tra molte ingiustizie, la scuola, l’università, la mobilità sociale sembravano strumenti concreti per “salire un gradino” rispetto ai propri genitori. L’idea di merito era intrecciata a quella di ascensore sociale.
Poi qualcosa si è rotto. La crescita si è fatta più selettiva, le disuguaglianze hanno iniziato ad allargarsi. Un dato, tra i tanti, aiuta a capire la portata del cambiamento: nel 1979 l’1% più ricco deteneva il 6% della ricchezza nazionale, nel 2023 siamo intorno al 12%. In mezzo, decenni in cui si è allargata la distanza tra vincenti e perdenti, alimentando frustrazione e rabbia. Non sorprende che una parte della politica abbia costruito fortune elettorali su narrazioni anti-élite, spesso di natura populista.
Queste dinamiche non sono cadute dal cielo: sono anche il frutto di una crescente pervasività del mercato in ambiti che un tempo venivano considerati beni pubblici, a partire dall’istruzione. L’education è diventata un segmento appetibile per grandi gruppi finanziari. Oggi la prima università italiana per numero di immatricolati è di proprietà di un fondo inglese: un dato che racconta meglio di tanti discorsi come il sapere sia entrato a pieno titolo nei portafogli degli investitori globali.
Ma il mercato non si limita a cambiare la struttura proprietaria degli atenei; filtra anche il nostro modo di pensare. Finisce così che confondiamo il talento con il successo economico, la lentezza dell’apprendimento con un difetto di produttività, la qualità della formazione con il numero di zeri della retta annuale che siamo disposti a pagare per i nostri figli. Il messaggio implicito è chiaro: se vuoi davvero un’istruzione di qualità, devi poterla comprare; altrimenti devi accontentarti.
Questa polarizzazione educativa è tossica per il tessuto sociale. Spinge verso forme eccessive di competizione, trasforma i coetanei in rivali, alimenta risentimento tra chi ce l’ha fatta e chi resta indietro. Divide i quartieri, le scuole, perfino le famiglie tra chi “sta nel giro giusto” e chi no. Rafforza un individualismo difensivo, in cui ciascuno è chiamato a cavarsela da solo, come se i punti di partenza non contassero nulla.
C’è poi un effetto più sottile, ma non meno rilevante: le élite che si formano oggi nelle migliori università del mondo spesso non conoscono i problemi reali della vita quotidiana. Non perché siano cattive, ma perché non li hanno mai visti da vicino. Chi cresce e studia sempre in contesti protetti, tra campus esclusivi e reti internazionali, rischia di parlare di disuguaglianze, povertà, precarietà del lavoro come di oggetti di studio, non come di esperienze vissute. E questo crea un divario culturale e simbolico che la politica fatica a colmare.
Se vogliamo tenere insieme merito e mobilità sociale, occorre immaginare strade nuove. Non si tratta di abbassare l’asticella, né di rinunciare all’eccellenza, ma di legare il riconoscimento del talento a una rinnovata responsabilità civica. Il merito, per essere giusto, deve poggiare su un sistema scolastico e universitario capace di offrire davvero a tutti condizioni dignitose di partenza: scuole dell’infanzia accessibili, tempo pieno, orientamento di qualità, borse di studio effettivamente selettive sul reddito e sul merito, residenze universitarie che non siano riservate a pochi.
Un Paese non cresce perché può esibire due o tre business school di livello internazionale. Cresce se la qualità media della scuola, dall’asilo all’università, è alta e diffusa; se le sue istituzioni funzionano e sono percepite come giuste; se un ragazzo nato in un quartiere popolare di Napoli o di Palermo può realisticamente aspirare a laurearsi, fare ricerca, creare impresa senza dover emigrare per forza o rinunciare alle proprie radici.
È questa, in fondo, la lezione che Sandel ha richiamato oggi quando ha citato l’esperienza dei Collegi Universitari di Merito, come l’IPE di Napoli. Strutture che cercano di coniugare selezione e ascensore sociale, offrendo a studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, un contesto formativo esigente ma inclusivo, fatto di studio, tutorato, vita comunitaria e attenzione alla crescita personale. Non enclave di privilegio, ma luoghi in cui il talento viene coltivato insieme all’idea di servizio al territorio.
L’articolo 34 della Costituzione italiana afferma che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Oggi quelle parole suonano come un programma ancora incompiuto. Rimettere in discussione la nostra idea di merito, alla luce delle disuguaglianze crescenti e della pervasività del mercato nell’istruzione, non significa tradire lo spirito di quell’articolo, ma provare a realizzarlo fino in fondo. Perché il merito torni ad essere alleato, e non nemico, della mobilità sociale.
*Consigliere scientifico Svimez e professore all’Università Federico II di Napoli


