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7 Luglio 2025

Quello sviluppo che abbiamo perso

di Giuliano Amato

su Il Sole 24 Ore

L’Italia smarrita. Il saggio curato da Giovanni Farese e Guido Melis ricorda la crescita nel dopoguerra, la qualità delle persone che la promossero, il ruolo del Formez: oggi mancano figure capaci di darsi missioni complesse.

Nonostante il sottotitolo, è ben possibile che un libro come questo sia visto dal potenziale lettore come una noiosa rievocazione delle origini di una delle tante istituzioni create per il nostro Mezzogiorno e sia per questo scartato a priori. Sarebbe un errore, un grave errore, perché nel libro c’è invece la chiave di lettura più affidabile dello sviluppo italiano, e dello stesso Mezzogiorno, dopo il secondo dopoguerra; e c’è la spiegazione più veritiera degli indubbi successi che allora registrammo e del decadimento che dopo è intervenuto.

C’è il clima del tempo, certo, c’è la voglia degli italiani di ricostruire, ci sono i miglioramenti delle condizioni di vita, che da subito vennero percepiti. Ma c’è, soprattutto, la qualità delle persone che fecero l’impresa, la loro intelligenza, il loro coraggio, la loro attenzione non solo alle infrastrutture materiali, ma anche al capitale umano che dovevamo apprestare per il nostro nuovo sviluppo. Ed ecco apparire davanti a noi quella che giustamente Giovanni Farese definisce una comunità epistemica, composta da Sergio Paronetto, Gino Martinoli, finché visse Giorgio Sebregondi, e poi Massimo Annesi, Giuseppe Glisenti, Pasquale Saraceno, Gabriele Pescatore, Sergio Zoppi, Giuseppe De Rita, lo stesso ministro Giulio Pastore. Tutti convinti, sulla scia del New Deal e in particolare dell’esperienza della Tennesse Valley Authority, che lo sviluppo c’è se è integrale, che riesce ad esserlo se ne fa parte l’innalzamento del livello culturale sia della popolazione che delle istituzioni, che, infine, di tale innalzamento può e deve farsi carico la decisione politica, con il coraggio e con i mezzi tecnici che sono necessari.  È un’altra musica rispetto a quella a cui siamo ormai abituati, vero? E basta leggere quanto scriveva di sé Paronetto: «Sarò con quelli che sbaglieranno, non con quelli che troveranno da ridire perché si è sbagliato; con quelli che avranno sempre torto, perché ci sarà sempre qualcheduno che potrà dire: così bisognava fare, così avrei fatto».

Loro fecero, sia per migliorare quadri tecnici della produzione e sia, sono ancora con le parole di Paronetto, per «creare e sviluppare un corpo di funzionari di adeguata preparazione e tra loro bene affiatati, capaci di trattare da pari a pari con gli esponenti del mondo della produzione…». E nacque il Formez. Riuscì a realizzare il programma, l’autentica missione che i suoi padri gli affidarono? Certo non poteva il Formez provvedere da solo all’innalzamento del livello culturale della popolazione. Ma lo fece con il personale di impresa, attraverso corsi che, col tempo, rinunciarono alla residenzialità per meglio adattarsi alla disponibilità di quel personale; e lo fece per i funzionari della Pubblica Amministrazione, agevolato qui dal fatto – notato nel libro da Sabino Cassese – che ancora non c’era la apposita Scuola Superiore, oggi Scuola Nazionale.

Certo, l’effetto trasformativo che aveva in mente Paronetto nel lungo periodo non si è realizzato. La cultura di impresa, se è entrata, è entrata a macchia di leopardo, così come ci testimonia lo sviluppo diseguale del Mezzogiorno, che ha assunto appunto tale forma. Quanto all’Amministrazione – come scrivono nella loro introduzione Adriano Giannola e Gian Paolo Manzella – i dislivelli nella sua qualità «hanno confini molto precisi, sovrapponibili a quelli che disegnano i differenziali in termini di sviluppo». Che cosa è dunque successo?

Sono tante le ragioni che spiegano il nostro sviluppo ancora diseguale, ragioni che vanno dai caratteri della nostra imprenditoria, alle perduranti asimmetrie fra essa e i processi formativi, al ruolo ancora efficace della criminalità organizzata, alla qualità – come si è appena detto – dell’amministrazione. Né ci manca la letteratura a cui attingere per informarcene a dovere.

Qui conta registrare le valutazioni di chi fu tra gli ultimi protagonisti della prima, gloriosa stagione e riflette oggi, in queste pagine, sull’accaduto. Con l’orgoglio della originaria comunità epistemica, Sergio Zoppi, che fu ai vertici del Formez fra il 1976 e il 1996, rivendica il lavoro fatto dallo stesso Formez soprattutto sulla Pubblica Amministrazione (che è rimasta, oggi, la sua sola missione). Ricorda le tante collaborazioni di cui negli anni ha potuto avvalersi, segno del prestigio che si era conquistato. Ma – conclude – l’efficacia di quel lavoro era fondata su una premessa, che il personale amministrativo avesse una sua non fungibile valenza tecnica e che la politica la rispettasse e se ne avvalesse per ciò che essa forniva. Con il dilagare dello spoils system questa premessa è venuta meno.

La magia dell’incontro che all’inizio mise insieme, da una parte persone come Paronetto, Martinoli e Sebregondi e dall’altra un ministro come Pastore, pur ripetutasi qualche volta in passato, sembra essere oggi soltanto un ricordo. «A mio giudizio, se si prende spunto dalla Cassa per il Mezzogiorno, dalla Cassa dei primi 10 anni, se si restituisce la nobiltà che merita alla competenza tecnica, allora, se lo si fa veramente, ci si può rimettere in riga». Prendiamolo come un auspicio.

Un ritorno a quel tempo è impossibile, ma qualcosa c’è che non dipende soltanto da particolari condizioni storiche: è la qualità degli uomini, è il coraggio di darsi missioni anche complesse e di adottare le decisioni politiche necessarie ad avviarle, è il coraggio di affidarle non a chi è fedele, ma a chi sa gesti-re, è lo stesso coraggio di sbagliare.

Tutto questo non ha tempo e dipende – siamo onesti – soltanto da noi. Dovremmo tornare a pretenderlo.

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