
Il tema del Regionalismo differenziato (da ora R.D.) è al centro di un dibattito sul quale non c’è identità di vedute da parte del mondo accademico e politico.
Tale dibattito si è ulteriormente acuito da quando il Governo ha approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata dal Ministro Calderoli dal titolo «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario». Tecnicamente si tratta di una normativa quadro sulla base della quale saranno adottate le intese tra Governo e Regioni per concedere a queste ultime ulteriori funzioni rispetto a quelle previste dal Titolo V della Costituzione. Ciò rende possibile appunto la creazione di Regioni ordinarie dotate di particolari forme di autonomia sulla base di intesa tra la Regione interessata e lo Stato.
La ricerca dal titolo Regionalismo differenziato: razionalizzazione o dissoluzione è stata condotta nell’ambito del progetto «trasferimento di funzioni secondo il principio di differenziazione attuando l’art. 116 c. 3 Cost.» coordinato dall’Università di Napoli «Federico II» sotto la guida scientifica di Sandro Staiano e a cui hanno preso parte le Università del Sannio (responsabile scientifico Domenico Scalera), di Napoli «Parthenope» (responsabile scientifico Francesco Calza), di Salerno (responsabile scientifico Sergio Perongini), di Napoli «Suor Orsola Benincasa» (responsabile scientifico Tommaso Edoardo Frosini), di Napoli «L’Orientale» (responsabile scientifico Antonio Lopes), della Campania «Luigi Vanvitelli» (responsabile scientifico Lorenzo Chieffi). Obiettivo della ricerca è l’analisi degli effetti provocati dal trasferimento delle funzioni e dal finanziamento delle competenze aggiuntive che l’applicazione del Regionalismo differenziato, così come proposto dal Ministro Calderoli, provocherebbe: a) sull’equità tra gli individui appartenenti a Regioni diverse nell’offerta dei beni e servizi pubblici e b) sulla crescita dei divari tra le Regioni del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno.
Il disegno di legge Calderoli solleva molti interrogativi e molte preoccupazioni su questi temi giuridici, politici ed economici per cui per esaminarli è stato necessario applicare un approccio interdisciplinare che è sicuramente quello più utile per collegare l’analisi sotto un profilo economico- finanziario con le problematiche di tipo giuridico costituzionale.
Le analisi (sia quella giuridica che quella economica) compiute dai diversi gruppi di lavoro si rivelano di grande utilità per chi voglia conoscere in modo completo lo stato del dibattito sui temi del R.D. e le notevoli perplessità che permangono per una sua applicazione sollecita. Dall’analisi compiuta dai vari gruppi di lavoro sembra prevalere un giudizio (espresso in forma velata) secondo il quale nel dibattito politico italiano l’ampliamento dell’autonomia non abbia «costi» per la collettività, per cui l’unico obiettivo è quello di massimizzare una funzione obiettivo della collettività che contenga come unica variabile l’autonomia e che sia priva di vincoli o di trade-off. L’ipotesi, però, che il decentramento istituzionale abbia «costo» nullo è poco plausibile; sarebbe molto più opportuno che il grado di rilevanza che una collettività decide di attribuire all’autonomia venisse valutato tenendo conto anche del «costo opportunità» che un più ampio grado di autonomia comporta rispetto ad altri obiettivi. Se si facesse questo raffronto tra i «benefici» e i «costi», sarebbe molto più trasparente la valutazione di quanto la collettività è disposta a sacrificare nella rinuncia di altri obiettivi per ottenere un maggiore grado di scelta autonoma nell’erogazione delle funzioni di spesa e nella scelta delle forme di entrate.
L’analisi di questi «costi», collegati all’evoluzione della nuova ripartizione delle funzioni e alla conseguente modifica del sistema di finanziamento delle Regioni italiane, manca del tutto nel dibattito politico sulle varie «Bozze» di leggi sviluppate dai Ministri che si sono succeduti in questi anni, né è presente nel DDL AS 615 del Ministro Calderoli. Attualmente si assiste ad un dibattito che ritiene superata ed inutile questa analisi propedeutica. Sarebbe rilevante invece procedere prioritariamente alla verifica degli effetti che la devoluzione delle funzioni da affidare alle Regioni richiedenti il R.D. possono provocare sull’equità tra gli individui che si trovano nelle stesse condizioni ma in territori diversi (equità orizzontale indicata nell’art. 119 Cost., primi quattro commi), sia sul tema, molto rilevante per il Mezzogiorno, della perequazione strutturale indicata nell’art. 119, comma V della Costituzione e necessaria per ridurre i divari territoriali.
Questo esame condurrebbe ad una necessaria scrematura delle funzioni richieste. Solo dopo avere effettuato questa verifica, per le funzioni per le quali è giustificata l’affidamento alle Regioni, è opportuno procedere al calcolo dei fabbisogni e dei LEP per individuare un percorso di convergenza degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni essenziali.
Il lavoro dei ricercatori va alla individuazione di questi «costi» e degli eventuali «benefici» che potrebbero derivare dall’accettazione del R.D., per cui il lavoro si sofferma su due temi: a) quello innanzitutto, della scelta che ogni collettività, sia appartenente ad uno Stato unitario che federale, deve compiere tra obiettivi di equità e di efficienza nell’offerta di beni e servizi pubblici; b) il tema, inoltre, della possibile contraddizione, che anche gli Autori del libro intravedono, tra l’esigenza di maggiore autonomia politica delle istituzioni sia regionali che locali e l’esigenza di assicurare la continuità di politiche ed interventi regionali nelle aree depresse o in ritardo di sviluppo presenti nel territorio nazionale.
Il primo tema, quello della scelta tra offerta diversificata o la garanzia di livelli essenziali omogenei caratterizzerà due aspetti rilevanti del federalismo: la ripartizione, delle funzioni tra i vari livelli di governo (federalismo istituzionale) e la ripartizione delle risorse tra le diverse aree del Paese (federalismo fiscale). Riguardo alle motivazioni relative all’equità, la tesi è che un’ampia autonomia finanziaria contrasta con il principio della «equità orizzontale», secondo il quale gli individui in condizioni uguali devono essere trattati dal punto di vista finanziario nello stesso modo (Buchanan, 1950).
In questa ipotesi di non equità nell’offerta dei servizi essenziali, quali ad esempio sanità e istruzione (vedi tabelle 5 e 6 riportate, alle pagine 80 e 83, nell’«Analisi economica» del volume), la funzione perequativa svolta dallo Stato (attraverso i LEP) è dovuta a tutti ed è giustificata da motivi di equità, perché permette un trattamento appropriatamente definito come equo o giusto nell’offerta dei servizi essenziali: proposte di modifiche normative come quelle che sono presenti nel DDL Calderoli (art. 5) condurrebbero ad offerte differenziate dei «diritti civili e sociali» e dei beni di «merito»; istituzionalizzerebbero le disuguaglianze interpersonali: lo Stato, in tal caso, perderebbe la sua funzione di mediatore dei conflitti sociali, vanificando, così, la sua funzione costituzionale di bilanciamento degli interessi che vale in uno Stato unitario e, tanto più in uno Stato che si avvia ad essere federale.
Il secondo tema richiamato nel volume, indica la necessità che l’Autonomia differenziata (A.D.) non sia in contrasto con l’obiettivo di ridurre i divari tra le aree del Paese. L’entità della funzione perequativa è motivata, in questa ipotesi, dal grado di solidarietà che le Regioni e l’intera collettività nazionale ritengono di accettare in quel periodo.
In sintesi, questo obiettivo consiste nel verificare se esista la possibilità, attraverso l’utilizzo dell’art.116, comma 3 della Costituzione, di costruire in Italia un modello di federalismo capace di bilanciare l’esigenza di maggiore autonomia politica delle istituzioni regionali e locali con quella di assicurare la continuità di politiche ed interventi nelle aree depresse o in ritardo di sviluppo presenti nel territorio nazionale. É questo l’approccio seguito da alcuni studiosi meridionalisti (Giannola, Viesti, Bianchi, Volpe,) che hanno sottolineato come il tema del legame necessario tra il federalismo differenziato e riduzione del divario economico è poco presente nel dibattito sia dottrinario che politico-istituzionale.
Tuttavia, negli ultimi tempi una nutrita schiera di politici ed anche studiosi (Giovanardi e Stevanato, 2020) polemizza molto su questo punto. La tesi espressa da questi Autori afferma che, nonostante trasferimenti copiosi a favore del Mezzogiorno, gli effetti sullo sviluppo delle aree del Sud sono stati quasi nulli, mentre questi interventi hanno provocato costi molto elevati sulle Regioni del Nord, «donatrici» dei trasferimenti, le quali sarebbero ora impossibilitate a sopportare ulteriori costi per finanziare lo sviluppo del Sud. Questa assenza di accenti sulla necessità che la forma di
«Autonomia differenziata» che si attuerà in favore delle Regioni richiedenti non sia in contrasto con gli obiettivi di sviluppo del Mezzogiorno viene spiegata da alcune affermazioni diventate quasi dogmi, quali:
- alle sfide della globalizzazione dell’economia mondiale, l’Italia può rispondere solo con il dinamismo delle Regioni più avanzate dell’Italia («Lombardia come Regione locomotiva»), dando ad esse una maggiore autonomia di spesa e di entrate;
- il divario territoriale è troppo forte, i flussi finanziari di questi anni al Sud sono stati senza ritorni economici a causa della cattiva gestione dei fondi trasferiti, della corruzione e del clientelismo che caratterizzano buona parte del Mezzogiorno
Con questa tesi si torna a riaffermare luoghi comuni che hanno segnato negativamente un rapporto Nord-Sud.
Da questa conclusione traspare anche nel DDL Calderoli l’intenzione di rilanciare una questione settentrionale negli stessi termini declinati a partire dagli anni ’90: l’impossibilità da parte delle Regioni del Nord di sostenere ulteriori trasferimenti di risorse a favore delle Regioni del Sud rischia di avallare la tesi che, se pure esiste, la cittadinanza limitata non va sanata intensificando l’intervento pubblico al Sud o di quello perequativo da parte dei territori più ricchi del Paese (Sentimenti, 2023)5.
Con argomenti convincenti nell’ «Analisi economica» (seconda parte del volume, redatta da Domenico Scalera e Antonio Lopes) gli Autori confutano la tesi principale del Sud «sprecone» e, pur non nascondendo episodi di inefficienze e di clientelismo nell’utilizzo delle risorse erogate, mettono in rilievo che gran parte dei fallimenti delle politiche attive di industrializzazione a favore delle regioni meridionali sono da addebitare proprio alle debolezze delle politiche di riequilibrio territoriale, che specie a partire dagli anni ’70, hanno aumentato gli squilibri territoriali e hanno fatto crescere la tesi ingannevole di un residuo fiscale insopportabile per le regioni più ricche del Paese.
Il disegno di legge Calderoli: il «costo» legato alla procedura per l’approvazione dell’intesa Stato- Regione
Il primo «costo» individuato dai ricercatori nel volume Regionalismo differenziato: razionalizzazione o dissoluzione deriva dalla procedura imposta per l’approvazione delle intese che, così come proposto nel disegno di legge AS 615, comporterebbe una riduzione del ruolo del Parlamento.
Il DDL AS 615 impone come condizione preliminare per l’avvio del procedimento che siano determinati i LEP per le funzioni connesse con il godimento dei diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, sulla base di una procedura che integra e completa il percorso già tracciato nella legge di bilancio per il 2023. Quest’ultima ha disposto l’istituzione di una Cabina di regia, presieduta dal Presidente del Consiglio dei Ministri e composta dai Ministri competenti per materia, nonché dai rappresentanti degli Enti territoriali. La Cabina di regia ha il compito di effettuare una ricognizione della normativa e della spesa storica per le funzioni che rientrano nelle materie indicate dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione, nonché di individuare gli ambiti per i quali è necessaria la definizione dei LEP, per poi procedere alla loro determinazione, avvalendosi del contributo della «Commissione tecnica sui fabbisogni standard». Le informazioni ricavate da questa fase preliminare saranno oggetto di Dpcm su cui viene acquisito esclusivamente un «parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali nonché delle Commissioni competenti per materia» (art. 3). Il Presidente del Consiglio dei Ministri, valutato il contenuto delle intese e il parere del Parlamento (o in ogni caso allo scadere del termine previsto), adotta il decreto. Il percorso imposto nel DDL AS 615 concede dunque un ruolo assai marginale al Parlamento, unico luogo appropriato per un dibattito ampio su questi temi: il procedimento per la stesura delle intese Stato-Regioni punta, invece, alla sede ristretta delle Commissioni e per di più per un parere mai vincolante, e persino solo eventuale del Parlamento, producendo in tal modo un grave «costo» per la democrazia.
Il «costo» della non equità nell’offerta dei servizi essenziali
Fra le materie che vengono richieste come oggetto di devoluzione vi sono la sanità e l’istruzione. La tutela della salute e l’istruzione afferiscono ai «diritti di cittadinanza» per i quali il tema dell’attribuzione all’uno o all’altro livello di governo deve essere affrontato valutando la natura di questi beni (definiti beni di «merito»), le esternalità e le economie di scala che producono
Per l’istruzione, come per la sanità, accanto alle motivazioni di efficienza che giustificano l’intervento pubblico, vi sono anche motivazioni legate all’equità, fondate sulla nozione dell’
«egualitarismo specifico». Il raggiungimento di questo obiettivo si attua attraverso un’attività di redistribuzione delle risorse da parte dello Stato, funzione questa che secondo la teoria sui beni pubblici (Musgrave R.A., 1969)6 non può essere svolta dalle singole entità territoriali. Per eliminare i costi legati alla non «equità orizzontale» occorre procedere al calcolo dei fabbisogni e dei LEP per individuare un percorso di convergenza ai livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni essenziali. Nonostante l’importanza del calcolo dei fabbisogni e dei LEP (per i quali occorre trovare anche le risorse nel bilancio dello Stato) ad oggi la ricerca non ha avuto risultati definitivi. Si apprende invece che nelle more della definizione dei «fabbisogni standard» vengono riconosciute alla Regione risorse per ciascuna materia di ammontare «almeno pari al valore medio nazionale pro capite della spesa statale» e che «l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della Regione (tributi propri e compartecipazioni) è di competenza della Regione» (art. 4). Ciò determina un trattamento finanziario di favore per le Regioni richiedenti autonomia rispetto alle altre. L’esito finale dell’applicazione transitoria di questo articolo permetterebbe di aggirare, in qualche modo, la norma costituzionale che in queste materie assegna allo Stato potestà legislativa nella «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, comma 3 lett. m).
Il trade-off tra autonomia e divari economici territoriali
Il Ministro Calderoli difende il suo progetto di regionalismo differenziato dall’accusa di spaccare il Paese, affermando che la Riforma al contrario «mette tutte le Regioni in grado di poter correre e realizzare una Italia ad alta velocità». Nei propugnatori del R.D. vi è la convinzione di una maggiore efficienza nell’erogazione delle prestazioni da parte delle Regioni rispetto a quella raggiungibile dallo Stato: dalla concessione delle competenze aggiuntive deriverebbe una competizione virtuosa tra Stato e Regioni e tra le Regioni stesse, da cui tutti hanno da guadagnare e nessuno da perdere. Ci si dimentica di affermare che, affinchè la competizione tra le Regioni produca effetti positivi per lo sviluppo dell’intero Paese, essa ha bisogno di competitori che siano nelle stesse condizioni. Il Mezzogiorno, talvolta anche per sue responsabilità, non ha mai avuto gli strumenti adatti per competere con altre parti del Paese. Le tabelle presentate nella Analisi Economica (seconda parte del volume) confermano la tesi che quando agli enti subnazionali viene affidata un’ampia autonomia tributaria (introduzione di nuove imposte, possibilità di modificare o la base imponibile e/o l’aliquota delle imposte proprie già esistenti), si può verificare un ulteriore «costo», quello di accrescere i divari economici tra aree ricche e aree povere della stessa nazione: due Regioni con redditi pro capite diversi, pur applicando la stessa aliquota fiscale determinata dall’ente centrale, otterranno gettiti diversi con i quali finanziare ammontari di spesa diversi; a maggior ragione un incremento anche minimo dell’aliquota fiscale nella Regione più ricca permetterà una crescita elevata del gettito fiscale, mentre la Regione più povera dovrebbe aumentare in misura superiore l’aliquota dell’imposta per ottenere un gettito fiscale pari a quello ottenuto nella prima Regione. Il maggiore gettito ottenuto nell’area più ricca potrà essere devoluto in funzioni e servizi decentrati più legati allo sviluppo (istruzione pubblica, installazioni, infrastrutture ed incentivi per le imprese ecc.), mentre le aree più povere dovranno utilizzare i minori gettiti ottenuti per finanziare servizi di prima necessità, legati in misura minore allo sviluppo del territorio (sussidi agli indigenti, politiche sociali, ecc.). Nel tempo la diversità negli ammontari dei gettiti fiscali e il conseguente utilizzo di tali risorse in funzioni più o meno «produttive» provocano un fenomeno del tipo «circolo vizioso della povertà» che accresce i divari tra le aree: l’attribuzione della responsabilità degli enti sub-nazionali di applicare le imposte proprie e la compartecipazione sulle imposte erariali può determinare un’ampia variabilità di gettito pro capite a livello territoriale. L’esame della Tab. 7 (pag. 83) conferma le affermazioni secondo le quali il decentramento fiscale caratterizzato da un’ampia autonomia di entrate e senza vincoli e condizioni conduce ad una concentrazione di risorse in pochi territori ed amplia le disparità fiscali tra i governi sub-nazionali.
Conclusioni
L’analisi compiuta dai gruppi lavoro delle Università della Campania ha verificato l’esistenza di alcuni dei «costi» legati all’introduzione del R.D. così come proposto dal Ministro Calderoli. In particolare, il sistema di finanziamento delle Regioni italiane con il conseguente aumento delle entrate proprie e derivate produrrebbe effetti negativi: a) sull’offerta diversificata dei servizi essenziali; b) sullo sviluppo economico regionale e c) sui divari economici esistenti tra le varie aree del Paese. Il meccanismo di trade-off tra grado di autonomia fiscale e crescita dei divari, inoltre, è sia statico che dinamico; pertanto, vi sono profonde preoccupazioni che esso si aggravi con l’attuazione delle norme
del federalismo fiscale previste nell’art. 119 del nuovo Titolo V. L’indicazione che si può ricavare da questo lavoro non è quella di proporre un arresto del processo, ormai avviato da tempo, di trasformazione del sistema istituzionale italiano verso un sistema con più ampie forme di decentramento, ma è quella di evidenziare la necessità che nell’applicazione del federalismo fiscale in Italia si creino forme di coordinamento tra i vari livelli di governo per armonizzare la politica fiscale e per individuare il punto di equilibrio tra la richiesta di un maggiore grado di autonomia fiscale delle Regioni e la necessità di indicare strumenti di finanziamento che non danneggino le aree del Mezzogiorno. Ma ad avviso degli Autori il punto più difficile da superare per la riduzione dei divari territoriali deriva dalla necessità di stimolare la discussione pubblica intorno alla tesi dell’interdipendenza sociale ed economica tra il Mezzogiorno e le Regioni del Centro-Nord. Sembra non vi sia la consapevolezza che sia necessario un aggiornamento nella chiave del Sud come secondo motore del Paese, con un rafforzamento reale e continuo delle politiche di riequilibrio territoriale. Diversamente, la riduzione dei divari territoriali diventa un obiettivo impossibile da raggiungere e l’eguaglianza dei diritti un miraggio.
di Gaetano Stornaiuolo