
Le domande che Epstein, professore di economia e co-direttore del Political Economy Research Institute (PERI) presso l’Università del Massachusetts ad Amherst, si pone all’inizio del suo volume Busting The Bankers’club. Finance for the rest of Us (University of California Press, Oakland-CA, 2024, pp. 362) possono essere così riassunte: «A cosa serve il sistema finanziario?»,
«le banche e la finanza in genere che servizio offrono alla collettività?»; «Quali sono gli interessi che banchieri e finanzieri perseguono?». Per rispondere a queste domande Epstein studia il sistema finanziario del più importante Paese capitalistico del mondo, gli Stati Uniti, non soltanto da un punto di vista meramente tecnico, ma lo analizza anche in ragione degli aspetti di natura politica e sociale ad esso connessi, considerando la rilevanza dei condizionamenti da parte dei gruppi di interesse coinvolti nei confronti degli attori istituzionali che, con le loro decisioni, a vario titolo, contribuiscono a definirne la struttura e suo il funzionamento.
Il sistema finanziario rappresenta una fondamentale infrastruttura all’interno dell’economia capitalistica; infatti lo svolgimento dell’attività economica comporta la necessità di trasferire risorse finanziarie dai soggetti o dai settori che spendono in misura inferiore alle proprie disponibilità finanziarie, verso quelli che ne spendono in misura superiore, tenuto conto che le trasformazioni del sistema economico hanno portato ad una dissociazione crescente tra le decisioni di risparmio e quelle d’investimento.
Si pensi, ad esempio, alle famiglie che hanno bisogno di contrarre un mutuo per l’acquisto di un immobile, oppure alle imprese manifatturiere che devono acquistare macchinari e devono finanziare tali investimenti mediante prestiti obbligazionari o il ricorso al credito bancario, oppure allo Stato che finanzia il proprio disavanzo attraverso emissioni di debito pubblico.
Si ha finanziamento esterno diretto quando il soggetto che risparmia (ad esempio un fondo pensione) cede le proprie disponibilità monetarie direttamente al soggetto (imprese o Pubblica amministrazione) che si trova in disavanzo finanziario, accettando in cambio attività finanziarie (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, ecc.) emesse da quest’ultimo. Affinché ciò avvenga, è necessario che le attività finanziarie (titoli) che chi dà a prestito è disposto ad accettare nel proprio portafoglio, abbiano caratteristiche uguali, per rendimento, rischio, durata, ecc.., a quelle dei titoli che chi prende a prestito è disposto ad emettere. Molto spesso questa condizione non si verifica per cui il finanziamento diretto sul mercato può risultare insufficiente rispetto al fabbisogno degli emittenti.
Per ovviare a tale limitazione un intermediario finanziario s’interpone tra datore e prenditore di fondi, assumendo sul proprio bilancio una parte dei rischi del prenditore; un esempio è quello dell’intermediario che raccoglie fondi a breve termine (basso rischio per il datore di fondi) e li impiega per finanziare a lungo termine operatori in deficit. La trasformazione del rischio presenta allora due aspetti distinti: il primo è connesso con la “trasformazione delle scadenze”; il secondo deriva dal fatto che il datore di fondi ha come controparte un intermediario finanziario, cioè un soggetto normalmente meno rischioso rispetto alla maggior parte dei prenditori di fondi considerati individualmente.
Un moderno ed articolato sistema finanziario dovrebbe svolgere proprio tutte queste funzioni; esso può essere quindi definito come un insieme organizzato di mercati, intermediari e strumenti (contratti) finanziari che provvede alla produzione e all’offerta dei servizi finanziari.
Data la natura dell’attività svolta, il funzionamento del sistema finanziario dovrebbe avvenire in un contesto di rigide regole e di controlli; infatti, il quarto elemento della struttura del sistema è costituito dalle autorità di vigilanza che dovrebbero predisporre una serie di regolamenti coerenti con l’ordinamento legislativo e controllarne il rispetto da parte di tutti i soggetti che operano al suo interno.
Il sistema finanziario riveste quindi un’importanza fondamentale per il funzionamento del sistema economico consentendo il trasferimento delle risorse finanziarie dalle unità in surplus (risparmiatori) a quelle in deficit e la conseguente gestione dei rischi, assicurando l’espansione economica e, in ultima analisi, la crescita dell’occupazione e un incremento del benessere per la collettività.
In definitiva il sistema finanziario dovrebbe svolgere un ruolo di supporto all’economia reale nella misura in cui è in grado di favorire l’accumulazione e l’allocazione del risparmio.
Tuttavia lo svolgimento di tali funzioni avviene all’interno di mercati in cui gli operatori prendono le loro decisioni in condizioni di incertezza per cui la possibilità – più volte richiamata da Epstein – che si verifichino delle situazioni in cui il sistema finanziario non è in grado di adempiere alle sue funzioni è tutt’altro che remota; inoltre, se il sistema di regole e controlli si allenta, la prospettiva che si verifichino crisi diventa molto concreta per il sistema finanziario che, per sua natura, è intrinsecamente instabile.
Instabilità e crisi dei sistemi finanziari
Prescindendo dalle teorie mainstream che considerano le crisi finanziarie come meramente accidentali e comunque agevolmente superabili attraverso l’operare delle stesse forze di mercato, una parte forse non prevalente della teoria economica, che Epstein ripercorre nel volume, si è interrogata sulle cause delle crisi e un utile punto di partenza per interpretare i fenomeni prima richiamati può essere la teoria dell’instabilità finanziaria sviluppata da Hyman Minsky (1919-1996) negli anni ‘701 del secolo scorso. L’idea di base è che, in periodi di relativa stabilità, il comportamento dei soggetti economici ha in sé il germe dell’instabilità. In un contesto macroeconomico caratterizzato da bassi tassi d’interesse e buone prospettive di crescita, famiglie e imprese sono incoraggiate ad aumentare il livello di indebitamento, il cosiddetto leveraging; in definitiva la crisi, sottolinea Minsky, è il risultato del normale funzionamento del sistema capitalistico. Se il capitalismo è per sua natura instabile, per Minsky la depressione economica ne è lo sbocco necessario; si tratta quindi di una posizione opposta all’ipotesi tuttora prevalente secondo la quale il capitalismo è un sistema intrinsecamente stabile.
Minsky riconosce esplicitamente come proprio oggetto di analisi un’economia capitalistica, soggetta a fasi di boom e di crisi, riprendendo l’analisi keynesiana delle decisioni in condizioni d’incertezza, della determinazione degli investimenti, del ciclo economico e della preferenza per la liquidità, nell’ambito di un’economia contrassegnata da una molteplicità di relazioni finanziarie, in cui assumono particolare rilevanza i rapporti tra banche e imprese.
Come in Keynes, anche per Minsky l’andamento della domanda globale dipende dalla fluttuazione degli investimenti. Per spiegare questi ultimi occorre considerare i rapporti finanziari che si stabiliscono fra banche e imprese attraverso i quali si definiscono le condizioni di finanziamento degli investimenti; la fluttuazione di questi ultimi deve dunque essere ricercata nell’instabilità delle relazioni finanziarie.
Riprendendo un altro concetto keynesiano, Minsky afferma che la definizione di queste relazioni avviene in condizioni di incertezza che influenzano le aspettative e quindi le scelte di portafoglio delle istituzioni finanziarie, delle famiglie e delle imprese e le opinioni che queste hanno circa il rendimento futuro dei loro progetti di investimento
Il legame con Keynes appare evidente anche negli aspetti monetari della teoria di Minsky; egli, infatti, considera la funzione keynesiana di preferenza per la liquidità una sorta di “polizza assicurativa” contro il venire meno degli incassi dovuti ad inadempienze contrattuali concernenti i titoli posseduti degli operatori economici, o all’andamento irregolare dei mercati sui quali essi prendono moneta a prestito o vendono le proprie attività.
Anche per Minsky il mutare delle aspettative è all’origine del ciclo economico, tuttavia per lui assume particolare rilevanza l’influenza delle aspettative sui processi d’indebitamento che si stabiliscono nell’economia, soprattutto quelli tra banche e imprese per ciò che concerne il finanziamento degli investimenti.
Minsky parte dalla constatazione che nelle moderne economie capitalistiche, le imprese finanziano sia l’avvio della produzione sia l’acquisto dei beni capitali ricorrendo al credito bancario. D’altra parte, nel bilancio delle banche figurano tra le attività sia prestiti a breve sia a lungo termine, mentre le passività sono costituite da depositi a vista e a breve scadenza. Lo scopo dell’attività bancaria, secondo Minsky è di massimizzare i profitti attesi. Nel concedere prestiti le banche valutano soprattutto la profittabilità attesa delle imprese, infatti, solo se queste ultime saranno in grado di onorare gli impegni assunti, le banche potranno trarre profitto dalla loro attività. Le aspettative dei banchieri sull’attività imprenditoriale rivestono quindi un ruolo centrale nel determinare l’andamento dell’economia. D’altra parte, le aspettative dei banchieri come quelle degli altri operatori si formano in un mondo dominato dall’incertezza; da qui l’estrema precarietà e mutevolezza delle decisioni prese.
Le banche nel concedere i prestiti sono sottoposte al rischio della loro mancata restituzione; questo rischio è tanto maggiore quanto più alto è il rapporto tra finanziamento esterno e attività complessiva dell’impresa e quanto maggiore è il rapporto tra impegni di pagamento e rendimenti futuri attesi.
In una situazione di boom economico imprenditori e banche sono presi dal clima di euforia e attribuiscono scarso peso al rischio connesso alla loro attività. Così le banche sono più propense a concedere prestiti e le imprese sono più propense ad aumentare la quota degli investimenti finanziati con fondi esterni.
Conseguentemente, quando gli imprenditori diventano più ottimisti, il livello d’investimento dell’impresa aumenta significativamente, mentre l’opposto si verifica quando aumenta la loro propensione al rischio.
Al contrario, in una situazione di crisi le aspettative degli imprenditori possono essere così pessimistiche per cui non ricorrono affatto al mercato dei prestiti e non utilizzano nemmeno tutti i fondi interni per finanziare gli investimenti: una parte di questi fondi è utilizzata per consolidare i debiti a breve contratti in precedenza.
Nelle fasi espansive del ciclo economico, le banche possono aumentare l’offerta di prestiti perché attribuiscono scarso peso alla mancata restituzione dei prestiti e sono disposte ad aumentare il rapporto impieghi-riserve libere, prestando parte dei fondi monetari immobilizzati. Viceversa, quando le aspettative sono pessimistiche, le banche cercano di cautelarsi di fronte ai pericoli di illiquidità o insolvenza, aumentando le loro scorte liquide rispetto agli impieghi. Pertanto, nella depressione, i fattori appena considerati operano invece nel senso di una restrizione dei mezzi di pagamento.
In conclusione, l’andamento degli investimenti dipende in particolare dallo stato di fiducia delle banche che fissano le condizioni di finanziamento della produzione, e degli imprenditori che con le loro decisioni d’investimento determinano il livello e la composizione della produzione.
L’azione di banche e imprese non è però coordinata centralmente; essa dipende dalle aspettative di questi operatori, definite in condizioni precarie e incerte, soggette perciò a frequenti e repentini mutamenti. L’instabilità finanziaria dei sistemi capitalistici è quindi la conseguenza di queste decisioni economiche decentrate che si ripercuotono sull’intero sistema.
Finanza e gruppi di potere
L’analisi dell’instabilità strutturale del sistema bancario, oggi, non può essere limitata all’attivo dei bilanci bancari, ai soli prestiti, alla luce dei processi di deregolamentazione del sistema finanziario che si sono intensificati a partire degli anni ’802.
Su questo punto Epstein si sofferma lungamente nel volume ripercorrendo le varie fasi che hanno caratterizzato la legislazione e la regolamentazione della finanza negli Stati Uniti nel corso del XX secolo. Un aspetto interessante che l’Autore sottolinea è l’influenza che il «club» dei banchieri ha esercitato nei confronti dei soggetti che si occupano della regolamentazione del sistema finanziario; a tale riguardo egli analizza una serie di canali attraverso i quali questa influenza può essere esercitata. L’Autore si sofferma sul cosiddetto fenomeno delle «porte girevoli» mediante il quale i funzionari che operavano all’interno delle agenzie di regolamentazione (Stock Exchange Commission, SEC); Office of the Comptroller of the Currency, OCC) e nel Governo erano in buona parte persone che in passato avevano ricoperto ruoli e cariche importanti in grandi banche e istituzioni finanziarie.
Altro aspetto rilevante da considerare è la coesione del club dei banchieri che più volte si è manifestata attraverso la capacità di condizionare le scelte del Congresso riguardo la modifica in senso più permissivo della legislazione bancaria ereditata dal New Deal: in particolare Epstein sottolinea la capacità della lobby bancaria di esercitare un potere per quanto riguarda il finanziamento alla politica e di condizionare in tal modo le decisioni politiche in funzione degli interessi dei finanziatori.
A tale riguardo è interessante considerare alcuni importanti momenti che hanno contribuito alla demolizione della legislazione in materia di mercati finanziari ereditata dal New Deal, che il Congresso ha adottato a partire dagli anni ‘90, indipendentemente dalla maggioranza repubblicana o democratica presente al suo interno.
Lo scardinamento del Glass-Steagall Act del 1932 nel 1999 ad opera dell’amministrazione Clinton ha ampliato la possibilità delle banche di espandere la propria attività oltre i confini degli Stati consentendo inoltre alle banche commerciali e alle banche di investimento non solo di ampliare il proprio raggio d’azione, ma anche di fondersi e ciò, di fatto, ha impedito una effettiva regolamentazione soprattutto per quanto riguarda alcuni strumenti finanziari molto delicati quali derivati e CDS.
A tale riguardo non si può prescindere da innovazioni, quali le cartolarizzazioni, che hanno reso negoziabili i prestiti bancari e hanno consentito di cedere i rischi di credito ai mercati finanziari ampliando significativamente le forme di intermediazione bancaria.
La diffusione delle cartolarizzazioni, riducendo il costo dei finanziamenti per la cessione sul mercato dei crediti erogati, ha cambiato radicalmente il modo di operare di molti intermediari L’analisi dell’instabilità strutturale del sistema bancario, oggi, non può essere limitata all’attivo dei bilanci bancari, ai soli prestiti, alla luce dei processi di deregolamentazione del sistema finanziario che si sono intensificati a partire degli anni ’80.
Su questo punto Epstein si sofferma lungamente nel volume ripercorrendo le varie fasi che hanno caratterizzato la legislazione e la regolamentazione della finanza negli Stati Uniti nel corso del XX secolo. Un aspetto interessante che l’Autore sottolinea è l’influenza che il «club» dei banchieri ha esercitato nei confronti dei soggetti che si occupano della regolamentazione del sistema finanziario; a tale riguardo egli analizza una serie di canali attraverso i quali questa influenza può essere esercitata. L’Autore si sofferma sul cosiddetto fenomeno delle «porte girevoli» mediante il quale i funzionari che operavano all’interno delle agenzie di regolamentazione (Stock Exchange Commission, SEC); Office of the Comptroller of the Currency, OCC) e nel Governo erano in buona parte persone che in passato avevano ricoperto ruoli e cariche importanti in grandi banche e istituzioni finanziarie.
Altro aspetto rilevante da considerare è la coesione del club dei banchieri che più volte si è manifestata attraverso la capacità di condizionare le scelte del Congresso riguardo la modifica in senso più permissivo della legislazione bancaria ereditata dal New Deal: in particolare Epstein sottolinea la capacità della lobby bancaria di esercitare un potere per quanto riguarda il finanziamento alla politica e di condizionare in tal modo le decisioni politiche in funzione degli interessi dei finanziatori.
A tale riguardo è interessante considerare alcuni importanti momenti che hanno contribuito alla demolizione della legislazione in materia di mercati finanziari ereditata dal New Deal, che il Congresso ha adottato a partire dagli anni ‘90, indipendentemente dalla maggioranza repubblicana o democratica presente al suo interno.
Lo scardinamento del Glass-Steagall Act del 1932 nel 1999 ad opera dell’amministrazione Clinton ha ampliato la possibilità delle banche di espandere la propria attività oltre i confini degli Stati consentendo inoltre alle banche commerciali e alle banche di investimento non solo di ampliare il proprio raggio d’azione, ma anche di fondersi e ciò, di fatto, ha impedito una effettiva regolamentazione soprattutto per quanto riguarda alcuni strumenti finanziari molto delicati quali derivati e CDS.
A tale riguardo non si può prescindere da innovazioni, quali le cartolarizzazioni, che hanno reso negoziabili i prestiti bancari e hanno consentito di cedere i rischi di credito ai mercati finanziari ampliando significativamente le forme di intermediazione bancaria.
La diffusione delle cartolarizzazioni, riducendo il costo dei finanziamenti per la cessione sul mercato dei crediti erogati, ha cambiato radicalmente il modo di operare di molti intermediari L’analisi dell’instabilità strutturale del sistema bancario, oggi, non può essere limitata all’attivo dei bilanci bancari, ai soli prestiti, alla luce dei processi di deregolamentazione del sistema finanziario che si sono intensificati a partire degli anni ’802.
Su questo punto Epstein si sofferma lungamente nel volume ripercorrendo le varie fasi che hanno caratterizzato la legislazione e la regolamentazione della finanza negli Stati Uniti nel corso del XX secolo. Un aspetto interessante che l’Autore sottolinea è l’influenza che il «club» dei banchieri ha esercitato nei confronti dei soggetti che si occupano della regolamentazione del sistema finanziario; a tale riguardo egli analizza una serie di canali attraverso i quali questa influenza può essere esercitata. L’Autore si sofferma sul cosiddetto fenomeno delle «porte girevoli» mediante il quale i funzionari che operavano all’interno delle agenzie di regolamentazione (Stock Exchange Commission, SEC); Office of the Comptroller of the Currency, OCC) e nel Governo erano in buona parte persone che in passato avevano ricoperto ruoli e cariche importanti in grandi banche e istituzioni finanziarie.
Altro aspetto rilevante da considerare è la coesione del club dei banchieri che più volte si è manifestata attraverso la capacità di condizionare le scelte del Congresso riguardo la modifica in senso più permissivo della legislazione bancaria ereditata dal New Deal: in particolare Epstein sottolinea la capacità della lobby bancaria di esercitare un potere per quanto riguarda il finanziamento alla politica e di condizionare in tal modo le decisioni politiche in funzione degli interessi dei finanziatori.
A tale riguardo è interessante considerare alcuni importanti momenti che hanno contribuito alla demolizione della legislazione in materia di mercati finanziari ereditata dal New Deal, che il Congresso ha adottato a partire dagli anni ‘90, indipendentemente dalla maggioranza repubblicana o democratica presente al suo interno.
Lo scardinamento del Glass-Steagall Act del 1932 nel 1999 ad opera dell’amministrazione Clinton ha ampliato la possibilità delle banche di espandere la propria attività oltre i confini degli Stati consentendo inoltre alle banche commerciali e alle banche di investimento non solo di ampliare il proprio raggio d’azione, ma anche di fondersi e ciò, di fatto, ha impedito una effettiva regolamentazione soprattutto per quanto riguarda alcuni strumenti finanziari molto delicati quali derivati e CDS.
A tale riguardo non si può prescindere da innovazioni, quali le cartolarizzazioni, che hanno reso negoziabili i prestiti bancari e hanno consentito di cedere i rischi di credito ai mercati finanziari ampliando significativamente le forme di intermediazione bancaria.
La diffusione delle cartolarizzazioni, riducendo il costo dei finanziamenti per la cessione sul mercato dei crediti erogati, ha cambiato radicalmente il modo di operare di molti intermediari finanziari che hanno sostituito, il modello «originate and hold» (eroga e detieni) con quello «originate and distribuite» (eroga e distribuisci).
Nel primo modello, l’erogazione di un prestito è un’operazione semplice che coinvolge solo due soggetti: la banca e il cliente. La banca raccoglie fondi attraverso l’offerta di depositi ed eroga prestiti che detiene fino a scadenza, esponendosi in questo modo al rischio di credito per cui essa è incentivata a selezionare accuratamente la clientela e a controllarne il comportamento dopo l’erogazione del prestito.
Nel secondo modello, invece, il finanziamento è un’operazione più complessa in quanto la banca raggruppa i crediti per classi omogenee di rischio e li vende ad una società che, a fronte dei quali, emette dei titoli (cosiddetti Asset Backed Securities, ABS), simili alle obbligazioni che corrispondono un interesse (fisso o variabile) e il rimborso del capitale, come le obbligazioni, grazie ai flussi finanziari rivenienti dal pool sottostante di crediti3. In altri termini i pagamenti fatti dai debitori principali ceduti sono utilizzati per pagare gli interessi e rimborsare il capitale investito dagli acquirenti delle obbligazioni.
I vantaggi principali di questo schema dovrebbero essere la specializzazione produttiva e la distribuzione del rischio. Da un lato, la specializzazione dovrebbe contribuire a un più efficiente utilizzo del capitale degli intermediari, ridurre il costo dei prestiti, garantire un elevato grado di innovazione finanziaria e, infine, consentire l’accesso al credito a soggetti che con il modello tradizionale di intermediazione bancaria non lo avrebbero avuto. Dall’altro, l’emissione di una varietà molto ampia di strumenti finanziari, con differenti combinazioni rischio-rendimento, dovrebbe rendere il sistema finanziario più stabile consentendo agli investitori una maggiore diversificazione di portafoglio.
Va però tenuto presente che i presunti guadagni in termini di efficienza possono essere più che compensati dai costi, come le varie crisi finanziarie che si sono succedute nel corso di questi anni hanno evidenziato.
Il trasferimento del rischio di credito, dalla banca agli investitori, può distorcere gli incentivi presenti nel modello originate and hold, con il risultato negativo di erogare più prestiti, ma di bassa qualità. Inoltre, il rischio degli strumenti finanziari frutto delle cartolarizzazioni (gli ABS) è spesso molto difficile da valutare, a causa della novità e complessità che li caratterizzano.
Gli errori delle agenzie di rating nello stimare la probabilità di default su tali strumenti, uniti ai conflitti di interesse che si determinano al loro interno tra valutati e valutatori, come Epstein documenta, hanno comportato una sistematica sottovalutazione dei rischi connessi alla loro sottoscrizione da parte di molti investitori ed esposto il sistema finanziario a un elevato rischio sistemico.
Il problema delle asimmetrie informative, sul quale si sofferma l’Autore, viene «risolto» attraverso un’operazione «di mercato» dalle agenzie di rating. Negli ultimi due decenni, queste imprese hanno avuto un grande sviluppo, che ne ha ampliato l’importanza all’interno del sistema finanziario internazionale. Una spinta decisiva al loro affermarsi è venuta dal processo di innovazione e liberalizzazione finanziaria prima richiamato.
Proprio su questi nuovi mercati le agenzie di rating sono riferimenti essenziali per «aiutare» l’investitore a risolvere il problema dell’asimmetria informativa, mediante la particolare specializzazione nel valutare la qualità di un emittente o di una specifica obbligazione negoziata sui mercati finanziari. Molti investitori usano i rating per orientarsi sulla rischiosità dei titoli obbligazionari: strumenti finanziari con elevati rating hanno bassa probabilità di default e viceversa. Perciò, il tasso d’interesse, cioè il costo di indebitarsi emettendo obbligazioni, è assai minore per i titoli positivamente classificati come investment grade6rispetto a quelli speculative grade7. Gli investitori spesso decidono di delegare alle agenzie di rating l’analisi della rischiosità di un titolo giacché, almeno in teoria, esse accedono a una massa di informazioni molto più ampia e dettagliata di quella disponibile al singolo operatore. Infatti, l’agenzia, durante il processo di assegnazione dei rating, ha contatti diretti con il management e la realtà operativa dell’emittente che le consentono di acquisire informazioni riservate. Ma l’elemento più importante per la diffusione dei rating è senz’altro il loro utilizzo nella regolamentazione finanziaria da parte di organi di vigilanza quali la SEC (Securities Exchange Commission) statunitense e il Comitato di Basilea. Basti qualche esempio.
Negli USA, i fondi d’investimento possono acquistare solo strumenti finanziari con rating minimo investment grade e le banche d’affari possono accantonare una quota minore di capitale se detengono attività con alti rating. A livello internazionale anche il Comitato di Basilea usa i rating come modalità di stima della rischiosità dell’attivo bancario per determinare i requisiti minimi di capitale delle banche.
Benché oggi siano numerose le agenzie di rating, il mercato resta fortemente concentrato; inoltre, come già osservato, sono sorti molti dubbi sui potenziali conflitti d’interesse. È stato più volte osservato che le imprese possono fare shopping tra le varie agenzie fino a trovare quella che, pur di accaparrarsi il cliente, è disposta a concedere il rating più alto. Così si creano situazioni di «corsa al rialzo» in cui le agenzie competono tra loro per offrire le valutazioni che meglio si adattano alle esigenze del cliente, con la conseguenza di trascurare gli investitori e, soprattutto, di creare distorsioni nell’applicazione delle direttive finanziarie basate sui rating. Inoltre, altre forme di conflitti di interesse si nascondono dietro i servizi aggiuntivi che le agenzie offrono ai loro clienti.
Di certo gli errori di valutazione commessi prima e durante le varie crisi che si sono succedute negli ultimi decenni hanno evidenziato come le agenzie di rating abbiano ancora molto da imparare nella valutazione degli strumenti finanziari cartolarizzati. In tal senso hanno agito in primis la deregolamentazione finanziaria verificatasi a partire dagli anni ‘80 che ha favorito un processo incontrollato di innovazione finanziaria che ha generato nuove tipologie di titoli strutturati, poi la stima tutt’altro che agevole delle perdite potenziali su di essi, infine le difficoltà di identificazione dei soggetti maggiormente esposti.
Banche e crisi. Troppo grandi per fallire
Se il processo di deregolamentazione sostenuto dalla lobby dei banchieri ha favorito una crescita delle loro attività (e quindi dei loro profitti), ha anche accentuato le intrinseche fragilità del sistema bancario e finanziario e favorito il comportamento speculativo degli operatori ampliando l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, per cui sono sufficienti piccoli cambiamenti nei comportamenti degli agenti per determinare un’instabilità di tutto il sistema.
A tale riguardo Epstein fa riferimento alle vicende statunitensi della crisi dei mutui subprime. Un’impostazione eccessivamente espansiva della politica monetaria come quella scelta dalla Federal Reserve negli anni precedenti lo scoppio della crisi del 2008 può rappresentare un utile punto di partenza: la riduzione prolungata dei tassi di interesse induce un aumento del valore di mercato dei titoli che le banche tengono in portafoglio; questo ha favorito i possessori di ingenti stock di titoli che si sono visti rivalutata la propria ricchezza finanziaria. Se il processo di deregolamentazione sostenuto dalla lobby dei banchieri ha favorito una crescita delle loro attività (e quindi dei loro profitti), ha anche accentuato le intrinseche fragilità del sistema bancario e finanziario e favorito il comportamento speculativo degli operatori ampliando l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, per cui sono sufficienti piccoli cambiamenti nei comportamenti degli agenti per determinare un’instabilità di tutto il sistema.
A tale riguardo Epstein fa riferimento alle vicende statunitensi della crisi dei mutui subprime. Un’impostazione eccessivamente espansiva della politica monetaria come quella scelta dalla Federal Reserve negli anni precedenti lo scoppio della crisi del 2008 può rappresentare un utile punto di partenza: la riduzione prolungata dei tassi di interesse induce un aumento del valore di mercato dei titoli che le banche tengono in portafoglio; questo ha favorito i possessori di ingenti stock di titoli che si sono visti rivalutata la propria ricchezza finanziaria.
La FED è veramente indipendente?
Nell’analizzare i diversi attori che influiscono con la loro azione alla definizione dell’assetto del sistema finanziario, Epstein dedica particolare attenzione alla Federal Reserve, la banca centrale statunitense.
Il Federal Reserve System, conosciuto anche come Federal Reserve e, ancora più semplicemente, come la FED, la banca centrale statunitense, nasce relativamente tardi rispetto agli altri paesi capitalistici dell’Occidente.
Nel 1908, in conseguenza del cosiddetto «panico del 1907», il Congresso degli Stati Uniti emanò l’Aldrich-Vreeland Act, con il quale, tra l’altro, veniva costituta una commissione, la National Monetary Commission, per studiare una riforma del sistema finanziario. La National Monetary Commission produsse fino al 1911 una notevole quantità di studi e analisi sul sistema monetario e finanziario statunitense e sui sistemi monetari e sulle banche centrali presenti nei vari paesi dell’epoca. La Commissione avanzò diverse proposte per l’introduzione di una istituzione che avesse il compito di prevenire e contenere eventuali crisi finanziarie. Benché in precedenza contrastata dal Partito Democratico, quando i democratici, nel novembre 1912, vinsero le elezioni sia al Congresso che per la Casa Bianca, il nuovo Presidente Woodrow Wilson (1856-1924) ritenne che la proposta di Aldrich richiedesse poche modifiche e fu così che la proposta di Aldrich divenne la base per il Federal Reserve Act del 1913 approvato dal Congresso il 23 dicembre di quell’anno.
Il contrastato dibattito al Congresso per l’approvazione del Federal Reserve Act e la diffidenza da parte dei politici e soprattutto dei banchieri verso soluzioni troppo accentrate determinarono una soluzione legislativa di compromesso che diede vita a una struttura del Federal Reserve System articolata in modo da poter ricevere impulso da tutte le parti del Paese e da mantenere una conformazione federale. L’organizzazione era costituita da una banca centrale con sede a Washington e da quindici banche regionali.
La FED, sebbene istituita nel 1913, e divenuta operativa solo nel 1916, nasce come struttura privata indipendente dal Governo americano, e ha obiettivi pubblici perseguibili anche attraverso la presenza di privati. Si pose subito il problema dell’indipendenza della FED dal potere politico che nei fatti, secondo Epstein, si è tradotto in un rafforzamento dei legami di dipendenza dal sistema bancario, per cui la politica monetaria adottata non ha mai potuto prescindere dagli interessi delle banche e delle altre istituzioni finanziarie.
La FED si articola in un’agenzia governativa centrale, nota come il Board of Governors of the Federal Reserve System con sede nel distretto di Washington D.C. e presieduta da 7 governatori nominati direttamente dal Presidente degli Stati Uniti, e dalle Federal Reserve Bank regionali, organizzate come enti di diritto privato.
Uno degli organi più importanti del Federal Reserve System è il FOMC (Federal Open Market Committee), che ha il compito di definire le operazioni da compiere sul mercato aperto; è Nell’analizzare i diversi attori che influiscono con la loro azione alla definizione dell’assetto del sistema finanziario, Epstein dedica particolare attenzione alla Federal Reserve, la banca centrale statunitense.
Il Federal Reserve System, conosciuto anche come Federal Reserve e, ancora più semplicemente, come la FED, la banca centrale statunitense, nasce relativamente tardi rispetto agli altri paesi capitalistici dell’Occidente.
Nel 1908, in conseguenza del cosiddetto «panico del 1907», il Congresso degli Stati Uniti emanò l’Aldrich-Vreeland Act, con il quale, tra l’altro, veniva costituta una commissione, la National Monetary Commission, per studiare una riforma del sistema finanziario. La National Monetary Commission produsse fino al 1911 una notevole quantità di studi e analisi sul sistema monetario e finanziario statunitense e sui sistemi monetari e sulle banche centrali presenti nei vari paesi dell’epoca. La Commissione avanzò diverse proposte per l’introduzione di una istituzione che avesse il compito di prevenire e contenere eventuali crisi finanziarie. Benché in precedenza contrastata dal Partito Democratico, quando i democratici, nel novembre 1912, vinsero le elezioni sia al Congresso che per la Casa Bianca, il nuovo Presidente Woodrow Wilson (1856-1924) ritenne che la proposta di Aldrich richiedesse poche modifiche e fu così che la proposta di Aldrich divenne la base per il Federal Reserve Act del 1913 approvato dal Congresso il 23 dicembre di quell’anno.
Il contrastato dibattito al Congresso per l’approvazione del Federal Reserve Act e la diffidenza da parte dei politici e soprattutto dei banchieri verso soluzioni troppo accentrate determinarono una soluzione legislativa di compromesso che diede vita a una struttura del Federal Reserve System articolata in modo da poter ricevere impulso da tutte le parti del Paese e da mantenere una conformazione federale. L’organizzazione era costituita da una banca centrale con sede a Washington e da quindici banche regionali.
La FED, sebbene istituita nel 1913, e divenuta operativa solo nel 1916, nasce come struttura privata indipendente dal Governo americano, e ha obiettivi pubblici perseguibili anche attraverso la presenza di privati. Si pose subito il problema dell’indipendenza della FED dal potere politico che nei fatti, secondo Epstein, si è tradotto in un rafforzamento dei legami di dipendenza dal sistema bancario, per cui la politica monetaria adottata non ha mai potuto prescindere dagli interessi delle banche e delle altre istituzioni finanziarie. La FED si articola in un’agenzia governativa centrale, nota come il Board of Governors of the Federal Reserve System con sede nel distretto di Washington D.C. e presieduta da 7 governatori nominati direttamente dal Presidente degli Stati Uniti, e dalle Federal Reserve Bank regionali, organizzate come enti di diritto privato.
Uno degli organi più importanti del Federal Reserve System è il FOMC (Federal Open Market Committee), che ha il compito di definire le operazioni da compiere sul mercato aperto; è l’organo attraverso il quale la FED riesce a influenzare i tassi di interesse sui mercati monetari e finanziari.
Il consiglio dei governatori definisce la politica monetaria che dovrebbe essere in linea con la politica economica nazionale e la politica fiscale del Governo degli Stati Uniti; va inoltre osservato che, a differenza della Banca Centrale Europea, alla FED è stato conferito un duplice mandato (Dual Mandate): perseguire l’obiettivo della piena occupazione e quello della stabilità dei prezzi. Su questo punto l’evidenza empirica fornita da Epstein testimonia che la FED, in più occasioni, ha perseguito una politica monetaria tendenzialmente più restrittiva di quanto sarebbe stato necessario per mantenere basso il tasso di inflazione con il risultato che il tasso di disoccupazione è stato più elevato di quello compatibile con il pieno impiego, disattendendo quindi al Dual Mandate e indebolendo in tal modo il potere contrattuale dei lavoratori.
Alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ‘80, ad esempio, l’economia ha registrato sia un’inflazione elevata che un’elevata disoccupazione. La FED ha deciso di ridurre l’alto tasso di inflazione portando i tassi di interesse a livelli molto alti, il che ha contribuito a due recessioni consecutive. Nel tempo, l’inflazione è diminuita, l’economia si è ripresa e il tasso di disoccupazione si è finalmente ridotto, ma evidentemente la priorità era stata data all’obiettivo della stabilità monetaria.
Nel corso degli anni ‘90 la FED ha progressivamente allentato la politica monetaria per fronteggiare gli effetti dello scoppio della bolla speculativa delle imprese nel settore informatico e delle comunicazioni attraverso internet (le cosiddette dot.com), sviluppatasi tra il 1997 e il 2000. In questi tre anni, nacquero molte società nell’ambito di tali settori spesso sotto-capitalizzate e con un unico proprietario, le quali videro i prezzi delle loro azioni lievitare velocemente per via della fiducia nel progresso tecnologico che portò molti investitori a speculare pesantemente senza un effettiva conoscenza di tali società e spesso dello stesso funzionamento del mercato azionario (infatti molti risparmiatori non professionali iniziarono a speculare, spinti dall’euforia collettiva). Tra il 2000 e il 2001, dopo una crescita del mercato azionario senza precedenti, si verificò lo scoppio della bolla, i prezzi azionari colarono a picco, causando la perdita di gran parte della capitalizzazione e spesso il fallimento di queste società. La FED, per rispondere alla crisi, intraprese una politica ancora più espansiva tra il 2001 e il 2004. Come conseguenza, l’economia statunitense si riprese velocemente, e conobbe un periodo di grande espansione. Questa fase espansiva fu favorita dalla deregolamentazione finanziaria, iniziata alla fine degli anni’70, che portò allo sviluppo e diffusione di nuovi strumenti finanziari (tra cui i prodotti derivati) e da una crescente importanza attribuita al settore finanziario per l’economia globale; dal livello eccezionalmente basso dei tassi di interesse deciso dalla FED, che agevolò notevolmente l’erogazione del credito (dato il basso costo del denaro), spingendo i consumatori e le istituzioni finanziarie ad indebitarsi, i primi per aumentare i consumi, le seconde per speculare nei nuovi prodotti finanziari.
La politica monetaria di quegli anni contribuì a determinare un eccesso di liquidità che come già osservato, ha favorito la pericolosa bolla speculativa dei mutui subprime.
L’intervento volto a prevenire lo scoppio della bolla speculativa si verificò nel 2006 con un brusco aumento dei tassi di interesse che si rivelò tardivo e inadeguato a evitare che nell’autunno del 2008 il sistema finanziario statunitense fosse investito da una gravissima crisi che diede poi luogo alla recessione più lunga e dolorosa dagli anni Trenta. L’allora Presidente della FED, Ben Bernanke, intraprese nel 2008 un vasto programma di acquisti di titoli pubblici e privati senza precedenti, denominato Quantitative Easing, che ridusse a zero i tassi di interesse per sostenere il prezzo dei titoli nei portafogli delle istituzioni finanziarie e delle principali banche nell’intento di tranquillizzare gli investitori e rafforzare il sistema bancario evitando un ulteriore aggravamento della recessione.
La politica monetaria è rimasta sotto il segno di Bernanke per circa 14 anni, oggi siamo in un capitolo di storia successiva la FED con il nuovo Presidente Jerome Powell che si trova a fronteggiare uno scenario completamente differente caratterizzato da una significativa ripresa delle tensioni inflazionistiche alimentate dall’aumento del prezzo delle materie prime e delle fonti energetiche causato prima dalla ripresa economica dopo la pandemia e poi dalle tensioni derivanti dalla guerra in Ucraina. La FED non ha avuto dubbi a riguardo e non ha esitato a intraprendere una politica monetaria di segno nettamente restrittivo che si è tradotta in una significativa riduzione del suo bilancio e in un repentino aumento dei tassi di interesse.
In altri termini si tratterebbe di un Quantitative tightening che, insieme ai rialzi dei tassi di interesse, dovrebbe contenere l’inflazione. Da quando la crisi pandemica è iniziata le banche centrali con il Quantitative Easing sono intervenute acquistando titoli, con un’intensità mai vista prima. Quando il bilancio della banca centrale cresce, la liquidità nel sistema economico aumenta. Ora l’intenzione della FED, e delle altre banche centrali, è opposta: il Quantitative tightening rappresenta uno strumento che, sommandosi ai rialzi dei tassi di interesse, ci si aspetta riduca in modo significativo il tasso di inflazione nell’immediato futuro.
Sul perseguimento di una politica monetaria di tipo restrittivo, Epstein esprime svariate riserve in quanto l’inflazione che si è sperimentata a partire dal 2021 non è dovuta a pressioni dal lato della domanda quanto piuttosto da una riduzione dell’offerta e da un incremento dei costi di produzione che le imprese traslano sui prezzi.
Se si analizzano i tassi di crescita si osserva che per gli Stati Uniti tra il 2021 e il 2022 questi sono diminuiti dal 5,7% all’1,6% con un’ulteriore riduzione all’1% per il 2023. A determinare queste dinamiche sarebbero quindi le strozzature nella catena delle forniture in tutto il mondo, specialmente a Oriente, coincidenti con la ripresa successiva alla pandemia, fenomeni che la guerra in Ucraina ha contribuito ad amplificare con l’aumento dei costi dell’energia.
Intervenire dal lato delle politiche monetarie avrebbe effetti negativi sui livelli di attività e quindi sull’occupazione, ma non rimuoverebbe queste strozzature che riguardano i meccanismi di formazione dei prezzi sui mercati dei beni agricoli e su quelli dell’energia, soggetti a distorsioni causate da comportamenti speculativi dei produttori. A tale riguardo sarebbe opportuno, in una situazione del genere, accelerare il più possibile la conversione verso fonti energetiche rinnovabili più competitive in termini di costi al fine di ridurre la dipendenza dell’Occidente dalle importazioni di fonti energetiche non rinnovabili.
L’adozione della leva monetaria si rileva inopportuna e dannosa soprattutto per i ceti meno abbienti i quali se, da un lato, possono trarre dei benefici in termini di contenimento della perdita di potere d’acquisto dei salari reali se il tasso di inflazione si riduce, dall’altro, sono pesantemente penalizzati dall’aumento dei tassi di disoccupazione e dalla conseguente perdita di forza contrattuale sul mercato del lavoro. A tale riguardo Epstein evidenzia che dalla fine degli anni ‘70 la crescita dei salari reali non è stata in grado di tenere il passo con la crescita della produttività del lavoro, dando luogo ad una distribuzione del reddito sempre più diseguale.
Finanziarizzazione dell’economia e diseguaglianze crescenti
Si può infine osservare che dopo l’elezione alla Presidenza degli Stati Uniti di Barack Obama, quando la crisi finanziaria aveva raggiunto il suo culmine, la nuova amministrazione si avviava a varare una nuova legislazione con lo scopo di limitare la commistione tra banca d’affari e banche commerciali, ma l’azione delle lobby bancarie, ben intenzionate a limitare gli effetti di questa legislazione, si è fatta sentire in modo piuttosto evidente.
A tale riguardo il Dodd Frank Act emanato nel 2013 dall’amministrazione Obama si muoveva in questa direzione nel vietare, tra l’altro, il cosiddetto trading proprietario con cui le banche commerciali utilizzano i depositi dei propri clienti per fare trading sui mercati finanziari compiendo operazioni rischiose.
L’attacco a questa riforma è stato portato avanti anche dagli economisti legati al mainstream e dai giuristi, dagli avvocati e dai consulenti delle banche e delle istituzioni finanziarie che hanno subito sottolineato che le limitazioni dell’attività bancaria determinano inefficienze, che alla fine frenano lo sviluppo dei mercati, per cui subito sono iniziate le azioni volte ad aggirare i vincoli o a trasmetterne i costi all’economia reale. Un alto coefficiente di riserva obbligatoria rappresenta un costo che grava sul margine di intermediazione delle banche, che tendono a traslarlo ampliando il margine dei tassi di interesse: il tasso sui depositi viene ridotto e il tasso applicato sui prestiti all’Economia viene aumentato. La segmentazione temporale dell’intermediazione aumenta i passaggi tra diversi intermediari per trasformare le scadenze dalla raccolta a breve termine al finanziamento di lungo periodo degli investimenti, con conseguente aggravio dei costi dell’intermediazione bancaria.
Epstein evidenzia che tutti questi interventi si sono scontrati con la resistenza delle lobby e dei maggiori attori dell’industria finanziaria globale. In molti casi la complessità dei campi di intervento (basti pensare alla enorme varietà dei prodotti della finanza strutturata) ha ulteriormente complicato il percorso di una regolamentazione che risulta ancora molto frammentata; in definitiva le ambizioni iniziali della riforma di Wall Street sono state fortemente ridimensionate e la sua concreta attuazione è stata sovente rinviata a tempo indeterminato.
Alla luce di tutte queste considerazioni si può tornare alle domande poste da Epstein all’inizio del volume e chiedersi se la finanza nelle sue varie articolazioni sia stata in questi anni in grado di assolvere alle sue funzioni originarie, ossia di essere un’infrastruttura funzionale allo sviluppo e al miglioramento delle condizioni materiali per la collettività.
La risposta a un tale quesito non può che essere negativa dal momento che quello che si osserva è proprio il contrario, ossia la sua crescente incapacità nel tradurre il progresso delle tecnologie in aumenti del reddito e ricchezza più equamente distribuiti, con una propensione della produzione ad avere una velocità di espansione inferiore a quella della finanza; a fronte dell’odierna tendenza del PIL mondiale a raddoppiare all’incirca ogni 10 anni ci sarebbe il valore delle attività finanziarie che triplica nello stesso lasso di tempo.
Ciò si traduce in un crescente orientamento dei capitali a cercare impieghi nella finanza piuttosto che nei progetti di investimento innovativi. La finanziarizzazione dell’economia consiste appunto nel fenomeno dell’espansione nella moderna intermediazione svolta dagli operatori dei mercati finanziari: sul sistema bancario, dove sono le relazioni personali a regolare la concessione del credito, ha preso il sopravvento la circolazione della liquidità legata all’ottimizzazione della gestione del portafoglio finanziario mediante gli algoritmi che gli operatori elaborano sulla base della valutazione del rischio delle diverse attività; la finanza si sviluppa in modo endogeno perché l’apertura dei mercati rende più facile sia investire capitali all’estero sia attrarre capitali dall’estero.
La finanziarizzazione dell’economia internazionale ha consentito che il valore complessivo delle attività finanziarie raggiungesse una cifra pari a 9 volte il Prodotto interno lordo mondiale. Questo processo ha coinciso con una notevole crescita degli occupati nei settori della finanza, del credito, delle assicurazioni e del settore immobiliare; la gamma di strumenti finanziari è divenuta molto più vasta; soprattutto con la creazione dei titoli derivati, molte grandi banche internazionali e commerciali si sono trasformate in banche di investimento dedite all’ottimizzazione del rendimento di un diversificato portafoglio di attività finanziarie.
La finanziarizzazione dell’economia contribuisce a un progressivo incremento della disuguaglianza di reddito nei paesi avanzati, favorito dai processi di deregolamentazione dei mercati, del lavoro in particolare, avviati negli anni’80. Lo spostamento di risorse dai settori produttivi a quello finanziario ha contribuito a deprimere le aspettative di domanda e ha accresciuto l’instabilità macroeconomica; a fronte di un incremento dello stock di ricchezza finanziaria rispetto al prodotto, si è registrata una continua riduzione del finanziamento delle attività produttive.
Fra il 1970 e il 2005 è quindi aumentata la liquidità intermediata dal sistema bancario rivolta all’acquisizione dello stock di ricchezza finanziaria ma si è ridotta la quota di credito destinata alle imprese. Queste dinamiche sono gli effetti della mancata regolamentazione del settore bancario. I mercati creditizi, lasciati senza controllo, tendono a dirottare liquidità dall’investimento produttivo all’attività speculativa dei mercati finanziari.
In questa direzione si muove anche uno studio di alcuni anni fa ad opera dell’economista francese Thomas Piketty dal titolo evocativo «Il capitale del XXI secolo». Un’altra importante ragione della disuguaglianza della ricchezza sta nell’ascesa dei super-manager. Piketty rileva che la produttività marginale del loro lavoro (ovvero l’incremento di prodotto, dovuto a un’unità addizionale di lavoro) non è osservabile; tuttavia, essi hanno un ovvio incentivo a convincere gli azionisti e i dipendenti che valgono molto e che la concorrenza mercantile fallisce nell’abbassare la loro retribuzione, poiché è in continua evoluzione la struttura societaria in cui lavorano e sono molto alti i costi di sperimentazione di manager alternativi. Ne discende che i loro emolumenti stratosferici non hanno alcun legame sistematico con le performance economiche delle imprese di cui sono responsabili.
Si può riformare il sistema delle banche e della finanza?
Nel corso del volume Epstein, nell’analizzare il sistema finanziario statunitense, mostra come l’influenza della lobby bancaria abbia assunto un peso crescente; ciò ha comportato che esso, di fatto, sia sempre più funzionale agli interessi di una ristretta élite e che, trascurando le esigenze della stragrande maggioranza delle famiglie e delle imprese manifatturiere, abbia contribuito ad accentuare le diseguaglianze e indebolito le stesse istituzioni democratiche.
In definitiva, la risposta alla domanda che l’Autore si era posto all’inizio della sua riflessione, ossia se il sistema finanziario svolgesse la fondamentale funzione a supporto dello sviluppo economico e quindi dell’incremento del benessere della società, si deve rispondere negativamente.
Nella parte conclusiva del volume Epstein si pone nella prospettiva di ipotizzare un sistema bancario alternativo che democratizzi la finanza. L’Autore illustra la presenza di movimenti che negli Stati uniti, partendo dalle comunità, dalle università e da centri di ricerca non legati al pensiero economico mainstream, si battono per una riforma radicale del sistema finanziario che vada oltre le questioni relative ad una più incisiva regolamentazione e ad una maggiora stabilità.
Le trasformazioni che hanno subito i sistemi finanziari negli ultimi quarant’anni, anche a seguito delle politiche di privatizzazione adottate grazie al prevalere dell’ideologia neoliberista, hanno dato luogo a intermediari finanziari di varia natura e di dimensioni crescenti che hanno progressivamente perso il loro rapporto con i territori, impedendo la possibilità di fornire servizi bancari accessibili alle comunità svantaggiate, investire in beni sociali essenziali come l’edilizia abitativa accessibile, fornire più credito alle cooperative e alle piccole imprese, promuovere la sostenibilità ambientale e combattere il cambiamento climatico.
Sotto questo punto di vista Epstein riconosce che una misura come il Community Reinvestment Act (CRA) che dal 1977 la FED promuove a tutela del credito locale ha svolto un ruolo importante, sebbene essa debba essere potenziata. Varato da quasi mezzo secolo dall’amministrazione Carter, con l’ intento di orientare banche e istituzioni finanziarie nel soddisfare le esigenze di credito delle comunità locali nelle quali esse operano, dopo una vita difficile durante l’amministrazione Regan, rafforzato nel 1995 con particolare attenzione al sostegno delle piccole imprese locali con l’amministrazione Clinton, è ormai parte integrante del governo del credito e delle banche statunitensi alle quali è fatto obbligo di soddisfare le preferenze ed i bisogni delle comunità locali estendendo il credito a tutte le componenti di dette comunità, sia famiglie che imprese.
Da salvaguardare sono in particolare le famiglie a basso reddito (specie per l’accesso al credito immobiliare) e le piccole e medie imprese cui va garantito l’accesso al credito senza discriminazioni, ottemperando al contempo alle regole di sana e corretta amministrazione degli affari.
Il CRA si applica a qualsiasi tipo (per dimensione, natura giuridica, estrazione locale, nazionale, internazionale) di banca che opera nella comunità e il primo parametro di valutazione del rispetto del criterio di non discriminazione è fornito dall’ analisi del reinvestimento in loco di una adeguata quota delle risorse raccolte nella comunità. «Vigilato» da ben quattro autorità – il Board of Governors of the Federal Reserve System; il Comptroller of the Currency; la Federal Deposit Insurance Corporation; l’Office of Thrift Supervision – il CRA deve assegnare un rating – obbligatorio – affisso in ogni punto operativo dell’Istituzione che certifica «la politica adottata» con allegata la valutazione che le Autorità danno dello stile e capacità operativa su quel territorio di quella banca. Il rating in genere tiene conto delle intenzioni dichiarate ex ante dalla banca e delle realizzazioni ex post, e sulla base di questi scostamenti, il CRA può comminare sanzioni amministrative o pecuniarie.
Uno dei punti più qualificanti delle rivendicazioni dei movimenti prima richiamati riguardano la «banca pubblica»; il favore verso un sistema finanziario in cui le banche siano anche di proprietà della collettività anziché dell’élite benestante, sta guadagnando slancio e sostegno in molte parti del paese.
Quando Epstein si riferisce alle banche pubbliche non considera solo quelle di proprietà dei governi (federali, regionali, statali o locali) che hanno il compito di svolgere una missione pubblica, ma considera anche quelle istituzioni finanziarie per le quali massimizzare il profitto non è l’obiettivo principale. Queste banche possono avere una missione principale che implichi il perseguimento di obiettivi sociali come lo sviluppo economico della comunità, la promozione della giustizia ambientale o la promozione dell’economia cooperativa. Queste banche potrebbero essere puramente di proprietà di enti appartenenti alla pubblica amministrazione, ma potrebbero anche avere nella loro compagine sociale soggetti privati. La chiave è che «l’orientamento alla missione», non il profitto, dovrebbe essere predominante.
I potenziali contributi che le banche pubbliche potrebbero dare per risolvere questi problemi sono molteplici. Innanzitutto, le banche private evitano di fare investimenti in queste aree perché sono percepite come troppo rischiose o non abbastanza redditizie. Sono quindi necessarie istituzioni finanziarie con una missione e un mandato pubblici per fare progressi significativi su molte di queste sfide.
In secondo luogo, le banche pubbliche possono fornire un’alternativa alle mega banche come JPMorgan, Chase e Bank of America. Ciò aiuterà la società e il governo a essere meno dipendenti da queste istituzioni «troppo grandi per fallire» e, di fatto, potrebbe rendere più facile lasciarle uscire dal mercato.
In terzo luogo, sfruttando il potere finanziario dello Stato ed evitando di dover pagare alti dividendi agli azionisti o enormi stipendi ai banchieri, queste istituzioni finanziarie pubbliche possono fornire servizi finanziari di base a un costo inferiore.
Infine, poiché queste istituzioni finanziarie pubbliche in genere non subiranno pressioni da parte di azionisti e dirigenti e trader altamente retribuiti per perseguire profitti e bonus, esse intraprenderanno investimenti meno speculativi e rischiosi costituendo una forza stabilizzatrice nei mercati finanziari. Inoltre, le strutture di governance delle banche pubbliche sono in genere molto più democratiche e più rappresentative di quelle delle banche private a scopo di lucro. La maggior parte delle iniziative bancarie pubbliche ha una rappresentanza di stakeholder e comunità nei loro consigli di amministrazione e/o comitati consultivi.
Epstein è altresì ben consapevole delle resistenze da parte delle principali istituzioni bancarie private e dell’American Bankers Association (ABA), le quali sostengono che in un sistema bancario quale quello statunitense con circa 5.500 banche che offrono una varietà di prodotti e servizi finanziari a consumatori, aziende e governi statali e locali, dar vita a una banca pubblica non solo sarebbe ridondante nel mercato attuale, dove le offerte finanziarie soddisfano già in modo efficiente le esigenze dei clienti, ma anche potenzialmente pericoloso, in quanto collocherebbe i fondi dei contribuenti in istituzioni le cui decisioni aziendali saranno guidate da priorità politiche anziché da una sana gestione del rischio.
Non si tiene conto del fatto che numerosi studi hanno evidenziato che esiste uno spazio tutt’altro che trascurabile per istituzioni finanziarie che non considerano il profitto come unico obiettivo; ad esempio le banche di credito cooperativo si sono dimostrate in molti contesti molto più attente alle esigenze dei territori rispetto alle banche private organizzate in società per azioni; la stessa esperienza delle banche pubbliche di proprietà del gruppo IRI testimonia che esse hanno svolto un importante ruolo nello sviluppo post bellico dell’economia italiana.
La battaglia per un sistema bancario differente per Epstein non può tuttavia essere disgiunta da una lotta per una maggiore democratizzazione della politica statunitense che passa necessariamente per una limitazione del ruolo dei finanziamenti privati alla politica, battaglia che si rende ancora più necessaria a seguito del progressivo degrado che negli ultimi anni hanno sperimentato le istituzioni negli Stati Uniti.
Vincere queste battaglie indebolirà le lobby dei banchieri, incoraggerà riformatori e attivisti e accrescerà il loro potere di cambiare in misura sostanziale l’economia e la società.
di Antonio Lopes