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23 Gennaio 2024

Un ddl che scinde l’Italia. Perchè sull’autonomia obiezioni non ideologiche

Corriere del Mezzogiorno
di Luca Bianchi e Carmelo Petraglia

Se è sicuramente un bene che i cittadini siano informati su origini, motivazioni e ricadute dell’autonomia differenziata, come ha giustamente rimarcato Sabino Cassese su queste colonne, vanno tenuti fermi alcuni punti.
Ricordiamo, innanzitutto, che le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sono aggiuntive rispetto alle competenze, già molto ampie, che il Titolo V della Costituzione, riformato nel 2001, ha trasferito alle Regioni, e che hanno contribuito alla conflittualità istituzionale e alla frammentazione delle politiche pubbliche nazionali.

Ma, soprattutto, è utile chiarire un equivoco: diversamente da quanto si sostiene, il Parlamento non sta discutendo di una riforma in attesa di attuazione da 22 anni. L’autonomia differenziata non è il nucleo centrale del nuovo titolo V. E solo, per così dire, l’eccezione alla regola, mai seguita, del federalismo fi-scale, simmetrico e cooperativo, fin qui inattuato della legge Calderoli del 2009.
Secondo i principi del nuovo Titolo V le accresciute competenze regionali, uguali per tutte le Regioni, andavano bilanciate con il rafforzamento dello Stato su tre funzioni cruciali per “tenere insieme” il Paese: (i) garantire i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale; (ii) contribuire al loro finanziamento nei territori a minore capacità contributiva per evitare di legare i diritti alla residenza; (iii) prevedere investimenti aggiuntivi nelle Regioni in ritardo di sviluppo.
Stupisce, quindi, che nonostante la sua natura di eccezionalità, l’autonomia differenziata venga ancora evocata come riforma in epocale ritardo. In questo senso, le pre-intese firmate da Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia con il governo Gentiloni non facevano mistero della loro reale motivazione: trattenere più risorse e utilizzare l’autonomia per legare il finanziamento dei servizi pubblici al gettito maturato nei territori.
Ora, la domanda è: le iniziative prese dal governo Meloni hanno davvero impresso, come sostiene il professor Cassese, un cambio di rotta?
In primo luogo, la definizione dei Lep prevista dalla Legge di Bilancio 2023, a risorse invariate, non è risolutiva per garantire livelli di servizio adeguati e omogenei a livello territoriale.
L’esperienza della sanità lo dimostra. Il finanziamento del Sistema sanitario nazionale non è la somma del costo dei Lea, ma è determinato a monte nella programmazione del bilancio pubblico, come è inevitabile per i vincoli di bilancio, e ripartito tra le Regioni sulla base della dimensione della popolazione e della quota di anziani. Un metodo che, come discusso nel Rapporto Svimez 2023, non tiene conto dei fattori socioeconomici che impattano sui fabbisogni di cura e assistenza, e finisce per penalizzare i cittadini delle regioni meridionali, che soffrono di minori servizi di cura per quantità e qualità.
Proprio per la sanità, la possibilità di delegare alle Regioni funzioni attualmente non ricomprese nei Lea, come la gestione e la retribuzione del personale e l’istituzione e la gestione di fondi sanitari integrativi, renderebbe possibile una maggiore spesa nelle Regioni richiedenti, sottraendo risorse alle altre.
Una critica esplicitata con chiarezza nella lettera dell’allora governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al comitato per l’individuazione dei Lep.
L’attuale proposta, inoltre, non risponde alle principali obiezioni emerse in questi anni. A partire da quelle di autorevoli organi di controllo nazionali come l’Ufficio parlamentare di Bilancio che ha bocciato le prime intese sulla base di un lungo elenco di criticità. Tra queste, la mancanza di indicatori verificabili di efficienza ed efficacia sulla base dei quali valutare la superiorità di una Regione rispetto allo Stato nell’esercizio di una competenza; l’assenza di indicazioni sulle specificità della Regione richiedente che motivino il decentramento in determinati ambiti. Soprattutto, se consideriamo le diverse competenze che richiedono le regioni del Nord – dall’energia ai trasporti, dalla politica industriale alla ricerca – appare assai difficile rendere tali “devoluzioni” compatibili con politiche strategiche nazionali. E quindi una riforma che, strizzando l’occhio ad alcuni egoismi territoriali per assecondarli, finisce per ridurre la competitività complessiva del sistema Italia e in particolare di quello produttivo. Lo dimostra la progressiva freddezza del mondo imprenditoriale, anche delle Confindustrie del Nord.
Infine, l’autonomia differenziata non favorirebbe un uso più responsabile delle risorse pubbliche poiché si prevede di finanziare le funzioni decentrate non già con la tassazione locale, ma con compartecipazioni al gettito nazionale
Irpef o Iva, con un’aliquota costante fissata nel primo anno dell’intesa. Ciò farà dipendere l’effettiva disponibilità di risorse della Regione con autonomia rafforzata dall’andamento nel proprio territorio del tributo compartecipato. Negli anni successivi alla stipula dell’intesa, questo meccanismo può determinare un extra-finanziamento svincolato da meccanismi di responsabilizzazione ed efficientamento della spesa. In tal senso, la Svimez ha stimato che, se fossero state approvate le pre-intese del 2018, si sarebbe generato un surplus a favore delle tre Regioni compreso tra i sei e i nove miliardi.
In definitiva, il ddl Calderoli non supera le obiezioni – non ideologiche e avanzate prima dell’ insediamento del nuovo governo- ed implica rischi di frammentazione delle politiche pubbliche nazionali e di cristallizzazione, se non di peggioramento, delle disuguaglianze.

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